RENZO FRANCABANDERA | Oscar De Summa è un artista, drammaturgo e attore di singolare forza interpretativa, da sempre frequentatore della scena indipendente italiana con i suoi monologhi pieni di intensità e realismo magico. Negli anni, fra scritture originali e rivisitazioni ‘in solo’ di alcuni grandi classici del teatro shakespeariano, ha portato a teatro una identità fatta di forza e fragilità, raccontando grandezza e miseria dell’essere umano, con testi autografi che stanno conoscendo anche un importante successo internazionale. Basato artisticamente presso la Corte Ospitale di Rubiera che ne ha sostenuto nel tempo recente la pratica artistica, in questi giorni, al Fabbricone di Prato dal 7 al 10 marzo, celebra i 10 anni di vita di un suo grande successo, Stasera sono in vena riallestendolo in versione live con la drammaturgia musicale curata da Corrado Nuccini (fondatore della band italiana Giardini di Mirò) che suonerà dal vivo insieme a Daniele Rossi e con la voce di Francesca Bono (Ofeliadorme).

Ph Matteo Iuppi e Francesca Goldoni

L’indissolubile intreccio tra musica e parole esaudisce in questa nuova versione il “desiderio” del protagonista che negli anni ’80 si immaginava cantante rock, considerando la visione dei rocker come l’unica alternativa al modello capitalista. La vicenda, raccontata in prima persona, è quella di un gruppo di ragazzi della provincia salentina che precipitano nel mondo dell’eroina, in una Puglia in cui prendeva piede la Sacra Corona Unita e dove era esploso il mercato della droga, trascinando tragicamente con sè una intera generazione.
Abbiamo intervistato Oscar De Summa.

Oscar, uno spettacolo che vive dieci anni è un’eccezione assoluta nel panorama teatrale di oggi. Oltre alla sua facilità di trasporto, quali sono gli ingredienti artistici che hanno sancito il successo di Stasera sono in vena?

Possiamo fare solo delle ipotesi. Di sicuro non possiamo dire niente… quindi: il primo elemento è che si tratta di uno spettacolo semplice dal punto di vista della struttura e quindi comprensibile da tutti, che era il mio desiderio quando l’ho scritto. Ho adottato, sempre con le dovute differenze, il metodo che usa Shakespeare, e cioè una scrittura fatta per stratificazioni. La prima lettura è la storia, nuda e cruda, che si può riassumere in una frase. Poi, scavo dopo scavo, nel testo compaiono, nascoste, citazioni da libri fondamentali, riflessioni sul periodo storico, antropologico, citazioni di interviste sul campo, punti di riferimento della cultura dell’epoca… senza mai essere esibite. Chi le conosce si ritrova, ne gusta la tessitura. Altrimenti la semplice storia, le emozioni che questa storia provocano, sono più che sufficienti.

Ph Matteo Iuppi e Francesca Goldoni

Dall’altro lato non ho mirato a raccontare semplicemente una storia di eroina degli anni ’80. Il desiderio era rompere l’uovo della solitudine nel quale viviamo e che spesso si avvale della droga per essere anestetizzato. La vibrazione che cerco di contattare è quindi il senso di appartenenza, nonostante spesso ci sentiamo persi. Questo non ha un’epoca di riferimento ma è intrinseco all’uomo. Il racconto sociale è contingente, è il mezzo per arrivare a contattare quel senso di inadeguatezza che proviamo. Nessuna denuncia diretta se non quella della necessità di mettere in campo mezzi, strumenti, per poter fare una ricerca su di sè.
Per concludere, i numeri che riguardano l’uso di droghe non mi sembra sia calato, anzi. Una delle ricerche dell’uomo messe in atto nell’ultimo secolo è la ricerca della serenità a tutti i costi, anche chimica se necessario. Autori come Aldous Huxley, da cui hanno preso il nome The Doors, avevano già predetto come sarebbe andata. E tutto questo naturalmente è a discapito della vita stessa. Si può vivere senza dolore? Una domanda che molti filosofi si sono posti e a cui nessuno ha saputo dare un’effettiva risposta. Il dato di fatto è però che questo è connaturato con l’essere umano e ogni tentativo di anestetizzarlo è una deformazione del senso della vita.

In questo come in altri spettacoli, penso a La sorella di Gesù Cristo ma anche al tuo Riccardo III, tu come interprete arrivi a vestire i panni di una serie di figure che trovano sintesi nella tua fisicità. L’attore scopre davvero con il teatro le sue molteplici anime o è una storiella che si racconta agli spettatori nel dopo spettacolo? Sii sincero!

C’è sicuramente una prima fase del fare teatro che riguarda i propri lati oscuri. Forse quello che affascina, in un primo momento, è il sentimento della complessità, la scoperta di parti nascoste, non praticate, di sé. Per mille motivi: l’ambiente familiare, le esperienze, la cultura di riferimento. Quindi subito si ha un senso di libertà importante che ci rivela la complessità della maschera, la necessità di adottare un ruolo nelle diverse situazioni.
Forse potrebbe sembrare che la nostra natura sia fatta di molte nature (indicarla come anima o anime è una scelta culturale, naturalmente). Ma il percorso non finisce, non si esaurisce con questa prima scoperta: è una specie di spirale che in vari momenti della vita rivela cose diverse e ci fa sentire in modo diverso. Passiamo dal non so di non sapere al so di non sapere al so di sapere per ricadere a un livello più profondo, più paradossale, di nuovo nel non so di non sapere e via così.

Ph Matteo Iuppi e Francesca Goldoni

Non so se queste si possono chiamare anime. Non so se ci sarà mai una fine. Dire di aver “capito” sarebbe una brutta battuta da commedia dell’800. Forse abbiamo solo individuato una strada. Forse. L’importante è che non parliamo di “verità”, soprattutto in teatro. Anche se poi alla fine tutti questi aspetti diversi vanno in un’unica direzione: la ricerca della verità.

Queste tue drammaturgie che tornano con la loro vicenda nel tuo territorio d’origine, sono tutte un po’ un lungo piano sequenza generazionale. Hanno uno scorrere quasi filmico, da graphic novel, non a caso è un codice che hai usato con La sorella. Come scrivi? È cambiato il tuo modo di scrivere negli anni?

Sicuramente. Il mio modo di scrivere e di fare teatro è sempre stata una risposta dinamica a un momento storico. In altri momenti, come ben sai, mi appoggiavo alla riscrittura dei classici, come Amleto o Riccardo III, proprio perché credevo che bisognasse passare da lì per arrivare al pubblico. Ci sono dei pro e dei contro naturalmente. Poi è nato il desiderio di uscire dal teatro luogo fisico e allora la forma della narrazione, la semplificazione della tecnica, sono diventati necessari. Non credo nella poetica in quanto forma chiusa in sè.

La sorella ha avuto un incredibile successo internazionale. Cosa è successo? Te l’aspettavi?

Non me l’aspettavo ma lo auspicavo. Era un po’ di tempo che cercavo una via per arrivare in Europa quando ho incontrato Federica Martucci che con la sua ottima traduzione e la sua determinazione ha aperto una strada verso la Francia e il Belgio. È stato bello scoprire e confermare che più si lavora sul particolare più la storia risulta universale.

Guardando le foto di quando eri ragazzo ti riconosci? Che cosa hai da dire ora, uomo, a quel tipo lì delle tue foto di un tempo? Il teatro ti ha salvato?

Posso dire di essere letteralmente un sopravvissuto. Ma questo non avrebbe nessun valore se poi la ricerca non fosse diventata una costante, se non fosse stato un desiderio attivo, fatto di scelte, anche difficili ma necessarie; se non mi fossi preso in carico la via che stavo percorrendo.

Il teatro è un mezzo. Mi ha salvato nel senso che ho trovato un mezzo con cui indagare la realtà. Ma avrebbe potuto essere la cucina o la chimica o qualunque altra cosa. L’importante è trovare un modo divertente per conoscersi.

Il teatro ti ha fatto felice?

Assolutamente no. Come disse qualcuno però… sempre meglio che andare a lavorare.

 

STASERA SONO IN VENA

di e con Oscar De Summa
progetto musicale Corrado Nuccini
musiche eseguite dal vivo da Corrado Nuccini, Francesca Bono, Daniele Rossi
progetto luci e scene Matteo Gozzi
produzione La Corte Ospitale/Teatro Metastasio di Prato
con il contributo di MIC, Regione Emilia-Romagna