CHIARA AMATO* | Nella sala Bausch dell’Elfo Puccini di Milano è andato in scena Chef, il monologo tratto dal testo omonimo di Sabrina Mahfouz e interpretato da Viola Marietti. L’opera teatrale della scrittrice britannico-egiziana è stata riadattata dalla regia di Serena Sinigaglia, generando un progetto tutto al femminile, produzione CTB-Centro Teatrale Bresciano.
La storia vede come protagonista una chef che ci racconta, e si racconta, attraverso gli eventi più significativi della sua vita: dagli episodi familiari a quando è stata a capo di un ristorante di alto livello, fino alla gestione della cucina di un carcere femminile. Nel mezzo, in ordine sparso, e senza seguire una logica temporale degli avvenimenti, ci sono gli amori tossici, le descrizioni di ricette e il ritratto di uno spaccato abbastanza underground, come evidenziato anche dal linguaggio truce e dall’abuso di scurrilità.

La scena, ideata da Marina Conti, riduce lo spazio d’azione a un cubo di vetro, frantumato a metà, e con dell’acqua e un secchio sul pavimento. Il tema dell’acqua ricorre in tutto lo spettacolo, sia come rumore di sottofondo, sia perché la protagonista, usando gli indumenti che via via si toglie di dosso, la raccoglie per strizzarla nel secchio. Ma poi, accade il paradosso: ripetutamente l’acqua viene rigettata a terra dalla chef, che, girando il secchio, lo usa come sgabello per sedersi. La ripetizione ossessiva di questo gesto caratterizzerà l’intera ora dell’opera.
La luce accompagna tale reiterazione. Roberta Faiolo, che si è occupata del progetto di luci e suoni, non a caso fa combaciare il rovesciamento dell’acqua al cambio di illuminazione, che passa da fredda e dall’alto, a calda e laterale. A questo si aggiunge un neon tubolare sul perimetro della scatola di vetro che ci rimanda all’atmosfera asettica tipica di una cucina industriale.

Foto di Melanie Mattinzoli

L’interprete entra in sala dalla platea, in una candida divisa da chef, e si ingabbia in questo quadrato minuscolo, dove inizia il suo monologo. Si rivolge direttamente a un ascoltatore/pubblico ma non rompe la quarta parete, non c’è vera interazione: è un flusso di coscienza e di disperazione.
I toni variano in maniera schizofrenica: dall’ironico sull’alta cucina pretenziosa al rabbioso nei confronti del padre che le ha devastato la vita, fino al nostalgico di un passato fatto di sogni infranti. Infatti, cogliamo che a un certo punto della sua vita qualcosa è cambiato, qualcosa che l’ha portata a doversi giustificare come se si trovasse al banco degli imputati: non è chiaro da subito se abbia ucciso il padre e se davvero sia colpevole della morte di una sua compagna di carcerazione; non ci è chiaro cosa sia il bene e cosa il male, perché di fronte a questi assurdi racconti di violenza, sia della vita della chef sia dell’altra carcerata, è lecito domandarsi come la storia potesse andare diversamente e verso un lieto fine.
Di lei non conosciamo il nome, e poco conta, perché Chef è il simbolo di una serie di esistenze che si sono accartocciate su loro stesse, vittime di un quotidiano fatto di violenze, risse e droghe: «è una vittima dal destino segnato», come afferma la stessa Sinigaglia nelle note di regia.

Foto di Melanie Mattinzoli

Il ritmo delle parole è molto veloce e a questo si alternano il suo fumare ossessivamente e l’andare avanti e indietro nello spazio, totalmente in balía di ansia, paura, e di una rabbia che vuole urlare.
Man mano che i vestiti vanno via l’interpretazione perde sempre più i toni ironici e tragicomici, per lasciare spazio alla fine delle speranze e alla consapevolezza che la donna non potrà salvarsi. Ora nuda in un angolo, rannicchiata, trema in un’acqua che ormai sa di pantano ed è sola, senza neanche più la sua cara amica-di-sventura Candice. Così, si rialza e si mostra a noi ancora nuda, e indifesa, come per raccogliere la comprensione da parte del pubblico.

Il testo, vincitore tra gli altri premi del Fringe First Award, è profondamente catartico e riesce a bilanciare i momenti impegnati con quelli divertenti, e una bellezza che va oltre il turpiloquio.
L’interpretazione di Marietti è assolutamente centrata: fiera e isterica al punto giusto, ma anche tenera e spaurita nella gestualità e nei movimenti.
La regia di Sinigaglia rende giustizia al testo, pur nel minimalismo dei pochi elementi in scena, lasciando, però, un senso di incompiuto, come se la recita fosse ancora in fase di ultimazione nel chiarire cosa ci voglia davvero comunicare, come se volesse passare questo senso di smarrimento e di poca chiarezza, come fa un vero e proprio flusso di coscienza. Un tornado appassionato, caotico e non ancora razionalizzato.


CHEF

di Sabrina Mahfouz
un progetto di Marina Conti, Viola Marietti, Katarina Vukcevic
con Viola Marietti
regia Serena Sinigaglia
traduzione Monica Capuani
scene Marina Conti
costumi Katarina Vukcevic
luci e suoni Roberta Faiolo
assistente alla regia Carola Rubino
produzione Centro Teatrale Bresciano
Lo spettacolo ha debuttato a TREND – nuove frontiere della scena britannica – XX edizione

Teatro Elfo Puccini, Milano | 17 marzo 2024

* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.