IDA BARBALINARDO* | Nel 2012, Giancarlo Visitilli – scrittore, giornalista, critico cinematografico e docente di Lettere in un liceo barese – pubblica per Einaudi E la felicità, prof? tra le cui pagine si dispiegano le vite di ventinove tra ragazzi e ragazze alle prese con l’ultimo anno di liceo e il sempre più imminente esame di stato.
Nella trasposizione teatrale del romanzo, curata da Riccardo Spagnulo e dallo stesso Visitilli, ogni spettatore può scovare richiami al proprio passato o presente da studente e forse comprendere cosa non è andato per il verso giusto. Attraverso la sua interpretazione, infatti, Luigi D’Elia tratteggia, commentandole, le storie dei vari personaggi e al contempo delinea una realtà scolastica lontana dallo sterile nozionismo e dalla volontà di abbattimento delle differenze. Una scuola che, in qualche modo, può insegnare a essere.
Successivamente alla messinscena del primo marzo di E la felicità, prof? presso il Teatro Koreja di Lecce, abbiamo intervistato Luigi D’Elia e Giancarlo Visitilli.

E la felicità, prof? è uno spettacolo che, tra le altre cose, porta lo spettatore a riflettere sulla propria condizione di studente, passata o presente che sia. Voi che studenti siete stati? E che esperienza della scuola avete avuto?

LD: Guarda, questa domanda calza a pennello, perché tre giorni fa, durante una replica a Cuneo, una ragazza mi ha chiesto se tra i personaggi che facevo vivere in scena c’ero anche io da studente: le ho risposto di no, perché mi rendo conto che sul palco porto il Luigi a cui sarebbe piaciuto fare il professore, non il Luigi studente.
Questo mi ha indotto anche a riflettere sul fatto che ho dei ricordi molto sbiaditi della mia esperienza scolastica, che non è stata leggendaria o eroica come quella che raccontiamo nello spettacolo. Ricordo la ragazza di cui ero innamorato, due, tre rimproveri da parte di qualche professore – particolare che mi fa capire quanto peso hanno le parole degli adulti per i giovani – un’insegnante di italiano che ci iniziò alla lettura di Oriana Fallaci e dei bellissimi momenti in classe con lei a leggere Un uomo, forse la lezione che ricordo con più passione.
Per il resto, devo dire che portando in scena questo spettacolo un po’ di nostalgia mi viene e quasi vorrei ritornare a scuola, anche se ormai non è più possibile.

GV: Bisogna considerare, innanzitutto, che parte del mio percorso scolastico è finito in questo spettacolo e ancor prima nel libro da cui è tratto, di cui non esiste più la prima edizione intitolata, E la felicità, prof?, ma una nuova, ovvero E allora, la felicità, prof?.
È stato un cammino travagliato, il mio, perché ero uno scapestrato e la scuola non mi ha mai intercettato, tant’è che per me è realmente iniziata durante il terzo superiore, perché ho trovato un modello, una professoressa di educazione fisica che portava in classe «L’Unità», videocassette e libri dalla copertina bianca. In quel momento già non vivevo più a casa, perché a dodici anni ero stato dato in affido e, dopo quell’incontro, ho letteralmente incominciato a rubare dalle librerie di Bari i libri con la copertina bianca perché volevo imitare quell’insegnante, leggere i suoi stessi testi.
Ovviamente, non capivo nulla dei libri come dei film che iniziavo a guardare, ma poi tutto è tornato: ho pubblicato il mio primo libro con Einaudi, la casa editrice che fa le copertine bianche, dopo aver terminato Lettere ho iniziato a studiare cinema e a comprendere i film di Truffaut, Nanni Moretti, quel genere di pellicole di cui non afferravo il senso alle superiori.  
La mia esperienza scolastica, quindi, nonostante sia stata travagliata, mi ha poi stupito e portato, oggi, a essere un insegnante, cosa che spesso stento a credere. Penso anche alla stessa fondazione, ventun anni fa, di una cooperativa sociale che si occupa di bambine ex prostitute, bimbi ammalati di AIDS, figli di ergastolani dopo essere stato io un utente dei servizi sociali: questo è il regalo che la vita fa a ognuno di noi, che siamo quel miracolo che si realizza in buona parte proprio nella scuola.
Quello che viene fuori dallo spettacolo con Luigi corrisponde al mio ideale educativo, alla possibilità, quindi, di una scuola in cui ci sia uno scambio dialogico importante tra studenti e docenti.

ph. Eliana Manca

Che opinione avete in merito allo stato di salute della scuola di oggi? Credete siano stati fatti dei passi in avanti rispetto al passato o notate una retrocessione?

LD: Non saprei, sai? Da un lato mi viene da pensare che certe cose si ripetano ciclicamente nel corso del tempo, impressione che mi fa riflettere sulla labilità della nostra indignazione, se poi finiamo per ripetere, comunque, gli stessi schemi. Il cambiamento più grande è sicuramente legato alla presenza massiccia degli schermi, che porta come conseguenza un differente modo di stare in classe e livelli di attenzione diversi. Pensa anche alle foto: oggi siamo tempestati da tanti input ma chi ha più la foto di classe? Le mie figlie – ne ho tre – no.
In generale, mi sembra tutto un po’ più veloce, compresso, a partire dalle ore di lezione. L’aspetto burocratico, invece, sembra essere diventato sempre più macchinoso e difficile da gestire, sensazione che mi confermano le insegnanti con cui lavoro spesso, per quanto credo sia un aspetto che interessa tutta la società, non solo la scuola.
Detto questo, bisogna anche considerare gli sviluppi positivi che si sono verificati: trovo che, ormai, ci sia una maggiore complessità rispetto a certi temi, altrimenti non avremmo potuto portare in giro uno spettacolo dove si racconta dell’omosessualità di Saverio o di Miguel che cambia sesso. Secondo me, quindi, certe cose si stanno più che altro dispiegando, non si stanno perdendo ma sommando a quelle del passato.

GV: Io credo che stiamo facendo dei passi indietro non indifferenti e non solo grazie a questo governo, perché tutto è iniziato dalla non-riforma Gelmini, da Renzi e dalla Buona Scuola: ormai si è proprio destrutturato il modo di pensarla, la scuola, per esempio dando manforte ai genitori che ormai sono onnipresenti. La stiamo sempre più sminuendo e lo stesso accade con l’università in cui ormai si studia solo dalle dispense perché ai ragazzi bisogna assegnare poco, altrimenti si stancano. Tutte cavolate che ci inventiamo con tanto di ricerca psicologica, psichiatrica, pedagogica quando – e lo dico sulla base di un percorso di studi in Psicologia che sto ultimando – tutto ciò non esiste nella narrativa psicologica, esiste semplicemente un diverso modo di educare. In questo modo abitui solo i bambini e gli adolescenti a una scuola che deve dare sempre di meno e abbassi l’asticella culturale.
Ci siamo inventati la “Scuola senza zaino”, la scuola senza libri e, grazie a Emiliano [il Presidente della Regione Puglia, ndr] abbiamo sperimentato per un anno e otto mesi la scuola senza professori, dato che durante la pandemia siamo stati l’unica regione a non essere andata a scuola, per poi fare gli esami di stato come se nulla fosse.
È chiaro, quindi, che adesso paghiamo uno scotto non indifferente. In tutto questo, Valditara, che faccio fatica a chiamare “ministro”, ogni giorno parla di punizioni, servizi socialmente utili o dell’introduzione delle prove INVALSI come prove utili per gli esami di stato, quando sono una delle più grandi boiate che esistono nella scuola italiana. Io le boicotto da sempre.

Con l’avvicendarsi delle generazioni si ripresenta ciclicamente il cortocircuito che porta molti adulti a marchiare i giovani come «fannulloni, distratti, sdraiati, disinteressati». Secondo voi da dove nasce e qual è, invece, la realtà?

LD: Posso dirti la verità? Secondo me, a prescindere dall’epoca di cui si parla, gli adulti rosicano, perché i giovani sono portatori di un’energia vitale che loro non possono più avere. Ti ricordi le “crociate” che si facevano durante la pandemia per scovare gli “accrocchi” di ragazzi senza mascherina? Ecco, è un chiaro esempio del fatto che, in un modo o nell’altro, questi ultimi diventano sempre il capro espiatorio attraverso cui sfogare le frustrazioni dei grandi.
Nello spettacolo c’è quella battuta bellissima detta da Saverio: «Siamo all’assurdo, prof: oggi se un ragazzo è felice lo invidiano pure i suoi genitori». Ed è antropologicamente vero. Giancarlo è stato geniale a cogliere questa sfumatura, tant’è che molti a fine spettacolo ci dicono: «Caspita, ci avete visto!».
Io li vedo benissimo, i ragazzi di oggi, il problema vero è che su di loro proiettiamo tante paure che sono in realtà nostre. Piuttosto, dovremmo provare a capire le loro fragilità emotive, che sono diverse, più complesse, forse.
Senza contare che siamo letteralmente impregnati di classismo e, se si parla di ragazzi provenienti da situazioni difficili o semplicemente da istituti tecnici/professionali, la ghettizzazione è evidente, perché sono totalmente esclusi dall’offerta culturale e teatrale. Prova ne è il fatto che ogni volta che mi trovo a confrontarmi con loro in quanto pubblico mi viene detto: «Eh, in bocca al lupo!». Poi, guarda caso, va sempre benissimo.
Non so se ricordi, nella scena dei giudizi finali, a un certo punto, una voce fuori campo – che è quella di Giancarlo Visitilli – recita la valutazione che viene data ad Annalisa: «Ma cosa pretendete da ragazzi che vivono in questo quartiere? Diamole la sufficienza e può bastare. Questa al massimo può fare l’estetista, la shampista». Successivamente io dico: «Annalisa si prende la laurea grazie alle borse di studio e diventa professoressa in una scuola media, […] le sue amiche estetiste e parrucchiere» e, devo dirti, che faccio uno sforzo per pronunciare quest’ultima frase in maniera neutra, perché altrimenti mi rendo conto che istintivamente tendo a darle un’accezione di disprezzo. È pazzesco.

GV: Ma sì, credo sia proprio un fatto culturale. Per esempio, io ho odiato il libro di Michele Serra (Gli sdraiati, ndr), perché rispecchia un modo di guardare ai giovani proprio soprattutto di una certa sinistra, di quelli che hanno fatto le rivoluzioni negli anni ’60 con la canna in bocca e le bandiere di Che Guevara, che si sono quasi arrogati il diritto di essere i padri di noi cinquantenni, quando non è affatto così. Certamente loro hanno aperto una strada e sono stati fondamentali, però poi non hanno lasciato spazio libero e il risultato è che noi siamo inchiodati dall’impossibilità di muoverci rispetto a quello che loro hanno fatto.
Tutto ciò, quindi, risulta ancora oggi ridondante, perché è come se fossimo fermi agli anni ’60: ricordiamoci che prima della pandemia c’era un movimento di migliaia di ragazze e ragazzi che scendevano ogni settimana in piazza, le Sardine, che con la scusa del Covid è stato fatto sparire. O pensiamo alle manifestazioni nate dall’avvento di Greta Thunberg, criticate anche da una certa sinistra. Questo cosa dimostra? Che non abbiamo proprio fiducia nei giovani e te ne accorgi da queste situazioni, ma anche dalle programmazioni culturali, sociali, scolastiche. I ragazzi dovrebbero coprogettare come avviene in altri Paesi, invece tutto si riduce al fatto che devono essere ricettivi rispetto a un qualcosa di cui non sono mai i reali protagonisti.
Questo atteggiamento deve smettere di esistere, perché non è vero che i giovani sono lontani dalla politica o che sono disinteressati: chi può essere più impegnato politicamente di loro che tentano in tutti i modi di ammonirci in merito al pessimo mondo che stanno ereditando e che stanno cercando di riprendersi? Davanti a questo non sappiamo fare altro che metterli in galera o manganellarli se manifestano.

«Anche ad essere s’impara» scrive Calvino ne Il cavaliere inesistente. Secondo voi, come può la scuola insegnare a essere? E il teatro? Può assolvere anch’esso a questa funzione?

LD: Ti dico, sono un po’ scettico rispetto a quello che può accadere formalmente dopo lo spettacolo, nel senso che, secondo me, la cosa meravigliosa che può dare l’arte è il manifestarsi di emozioni fortissime. Quelle emozioni fortissime qualcosa dentro indubbiamente la spostano, ma in che modo lo facciano e in che tempi, non so. La vedo come una sorta di germinazione sotterranea, un qualcosa che riemerge dopo anni e in modalità che non immaginiamo: ha la natura dell’arte, della poesia e per questo è impalpabile.
Come dire, a me piace innaffiare, nutrire di emozioni, poi quello che accade dopo è il grande mistero. In generale, credo sia più una faccenda civile che spetta ai politici che sanno perfettamente cosa devono fare, agli insegnanti – se si mettono in discussione – e agli alunni.

GV: È letteralmente una battaglia che porto avanti da anni, anche sulle pagine del giornale settimanalmente: l’idea di una scuola che non può ridursi alle spiegazioni frontali che ogni mattina faccio in classe. La scuola è il cinema, il teatro, un concerto, la scuola è tutto quello che fa parte delle nostre vite ed è bello quando si apre al territorio, alle parrocchie, alle cooperative sociali, quando cioè fa vivere l’esperienza vitale di un luogo che è sì situato in un territorio specifico, ma anche più allargato. Può essere essa stessa una forma d’arte e basterebbe recuperarla, questa sua componente, invece ho ancora colleghi che fanno fatica a portare le scolaresche a teatro o al cinema perché credono sia una perdita di tempo. Uno spettacolo teatrale, a prescindere dalla sua bellezza, vale cento mie lezioni frontali, perché il linguaggio dell’arte è molto più diretto.

Giancarlo, com’è stato per te il confronto con il pubblico teatrale? Vedere trasposto sulla scena il contenuto del tuo libro ti ha restituito qualche sensazione differente rispetto a quelle provate durante la sua stesura?  

GV: La trasposizione è sempre un momento forte. Pensa che la replica di avantieri è diventata una notizia per «la Repubblica»: c’erano quattrocento studenti in sala, tra i quali un ragazzo autistico che, a un certo punto, ha incominciato a parlare ad alta voce e quel suo vociare – da molti magari considerato come causa di fastidio – è diventato letteralmente parte della messinscena. Questo per dirti che è uno spettacolo talmente vero che ovunque lo stiamo portando, credimi, il ritorno è questo, non solo da parte degli studenti, ma anche dei miei stessi colleghi.
Quello a cui abbiamo puntato fin dall’inizio è far sì che sul palco potesse rimanere intatto quel senso di credibilità rispetto a ciò che la scuola, ahinoi, non è. Parliamo di una scuola che ha davvero le sembianze di una famiglia, una comunità all’interno della quale le ventinove vite raccontate da Luigi D’Elia, pur arrancando e barcamenandosi, riescono comunque a realizzarsi.

E LA FELICITÀ, PROF?

di Giancarlo Visitilli
adattamento e regia di Riccardo Spagnulo e Giancarlo Visitilli
con Luigi D’Elia
video Bob Cillo
cartoonist Alessia Tricarico
produzione Teatri di Bari in collaborazione con I Bambini di Truffaut
dall’omonima opera edita da Einaudi editore, 2012

Teatro Koreja, Lecce | 1 marzo 2024

* PRIMAVERA PAC è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.