CHIARA AMATO* | Zona K, nel dinamico quartiere milanese Isola, è uno spazio e un’associazione culturale che dal 2013 ospita eventi di teatro, cinema, danza, musica e arte visiva, per adulti e per bambini. Il 4 e 5 aprile ha accolto l’assolo di danza Unfolding an Archive (Spiegare un archivio) di Zoë Demoustier, supportato dalla compagnia belga Ultima Vez (fondata dal coreografo Wim Vandekeybus), una casa di produzione di danza contemporanea con sede a Sint-Jans-Molenbeek, che collabora con partner a livello nazionale e internazionale.
Per il secondo lavoro che la performer e coreografa ha creato con loro, è partita da un elemento biografico: lo spettacolo inizia nel buio totale e con la proiezione del dialogo fra lei e il padre (Daniel Demoustier), che ascoltiamo registrato. Si evince da questo botta e risposta, quasi un’intervista, che per oltre venticinque anni il padre ha lavorato come giornalista di guerra e spiega come sia diverso essere inviati speciali per catastrofi ambientali rispetto a documentare le atrocità causate dall’umano e dalla politica.

Si può già notare una prima scelta drammaturgica che poi a fine spettacolo la performer spiegherà durante il dibattito: non vengono mostrate immagini di guerra ma solo un paesaggio in movimento. Durante questi viaggi e spostamenti Daniel e i suoi colleghi lasciavano una camera fissa in macchina a riprendere l’esterno: luoghi che potrebbero essere ovunque, campagne e chiacchiere tra di loro che fanno percepire il background sconosciuto di questo mestiere. In un’epoca come quella attuale in cui siamo saturi di immagini fotografiche, Zoë sceglie di fare sua la lezione di Susan Sontang in Davanti al dolore degli altri, sua fonte di ispirazione: decide di non usare il dolore degli altri, ma di rimandare a un piano emozionale collettivo, quello dell’immaginazione scaturita dai suoni (idea di Willem Lenaerts & Rint Mennes), elemento cardine, come vedremo nel resto della performance.

Foto di TomHerbots

Dall’altro canto nel dialogo iniziale emerge il lato familiare, i ricordi di una figlia abituata all’assenza della figura paterna, avvezza a seguire i notiziari, a conoscere perfettamente tanti luoghi perché sempre tesa con l’orecchio temendo di ricevere notizie infauste. Elenca i paesi visti in quel periodo e, anche se lo spettacolo è di alcuni anni fa, risulta essere totalmente attuale perché ci sono zone del mondo ‘calde’ ormai da così tanto tempo da non ricordare più l’origine di quei conflitti (e non vederne una fine). Infine lei ricorda, con la tenerezza dell’allora bambina, che ascoltava le Destiny’s Child con la loro Say my name.

Durante questa fase iniziale, sulla scena poco illuminata (Harry Cole), la performer vestita di nero (costumi di Annemie Boonen), traccia con un bastone in alluminio linee di sabbia bianca, che partono da un centro per diramarsi come saette zigzagando sulla pavimentazione nera dello spazio scenico. Inizia a muoversi tra questi spazi senza mai inizialmente toccare le linee con i piedi ma scavalcandole. Fondamentale l’utilizzo delle luci e dei suoni per la composizione drammaturgica della coreografia, in quanto veri e propri partner per la sua danza. I suoni sono eseguiti dal vivo e mixano interviste di guerra, grida di manifestanti, lo scalpiccío di piedi di bambini che scappano, i motori di un aereo e tanto altro, fino a comporre una sinfonia di venti mini-capsule coreografiche a sé stanti. A ogni rumore corrisponde un movimento scenico che la coreografa ha mixato, eseguito in slowmotion, velocizzato, tagliato e ricucito proprio come in un montaggio. Il riferimento al lavoro del padre è lapalissiano solo che al posto delle immagini ha utilizzato il suo corpo e la danza, in una esibizione molto coinvolgente.

In alcuni momenti il suo corpo sembra ipnotizzato e impossessato da un fremito che le parte dai piedi ma che coinvolge pienamente il suo volto e le espressioni, sempre cangianti. La rapidità con cui avvengono questi cambiamenti, via via più veloci, lascia esterrefatto il pubblico in sala che appare incantato: ognuno a fare i conti con il proprio bagaglio di immagini che balzano alla mente. Forse la mossa più riuscita di tutto lo spettacolo è proprio questa enorme libertà di immaginazione lasciata a chi assiste e guidata dai movimenti della performer che riesce a mantenere una forte intensità di interpretazione e a creare una profonda connessione emotiva.

Il cerchio si chiude quando questa sua visione di cosa potrebbe essere quel “dolore degli altri” si fonde con il nostro occidente e con quello che ognuno di noi ha vissuto nelle proprie case: il lusso della tranquillità di ascoltare, gioire e danzare su un brano pop come quello delle Destiny’s Child. Una mitragliata di suoni colpisce le note di Say my name, insieme alle luci bianche che si alternano ad altissima velocità fra calde e fredde su più punti della scena: tutto dà l’idea che la piccola Zoë sia al centro di questo tornado di emozioni perché nel suo cantuccio sicuro subisce la continua invasione di queste folate di guerra. Il centro di quella ragnatela è proprio lei e i venti punti tracciati intorno fanno eco al pari numero di coreografie, giochi di suoni e di luci.
In che senso Spiegare un archivio quindi? Il discorso portato in campo con la danza è non solo politico e militante ma in primo luogo umano e familiare. Il tentativo, riuscito, è di smontare i meccanismi che rendono statico un archivio per farlo diventare vivo, ricostruito e riconoscibile, attraverso la combinazione della danza contemporanea, del mimo e di un grande lavoro documentaristico. Quindi non una semplice presentazione di foto e video che vede il pubblico come elemento passivo ma l’interazione tra come Demoustier ‘sente’ le immagini e come le comunica con il suo corpo danzante. Si intrecciano così due linee temporali, la sua e quella del padre, incastrando le loro storie e penetrando nel movimento.


UNFOLDING AN ARCHIVE (SPIEGARE UN ARCHIVIO)

Coreografia e performance Zoë Demoustier
Musica dal vivo Willem Lenaerts
Sound concept Willem Lenaerts & Rint Mennes
Disegno luci Harry Cole
Luci e assistenza tecnica Pieter Kint
Intervista e montaggio Yelena Schmitz
Design e costumi Annemie Boonen
Ricerca Annemie Boonen & Willem Lenaerts
Drammaturgia Elowise Vandenbroecke
Coaching Danielle van Vree
Archivio video e audio Daniel Demoustier
Co-produzione STUK
Con il supporto della città di Leuven, 30CC, Platform In De Maak Residenze STUK, Ultima Vez, Vlaams Cultuurhuis de Brakke Grond, Voetvolk Atelier Rubigny Grazie a Shila Anaraki, Oihana Azpillaga, Jonas Beerts, Anna Bentivegna, Stijn De Cauwer, Elliot Dehaspe, Dirk De Lathauwer, Lahja Demoustier, Misha Demoustier, Hannes Dereere, Josine De Roover, Pieter Desmet, Klaas De Somer, Willem Malfliet, Hildegard De Vuyst, Silke Huysmans, Karen Joosten, Koen Theys, Maarten Van Cauwenberghe, Gerlinde Van Puymbroeck, Veerle Van Schoelant, Niek Vanoosterweyck, Bart Vanvoorden, Remo Verdickt, Cas-co Leuven, Dag van de Dans, Danstuin.

Zona K, Milano | 5 aprile 2024

* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.