RENZO FRANCABANDERA | Una voce fuori scena, nel buio, conduce lungo un viaggio immaginario per le vie di Roma. È la Roma di oggi, ma l’itinerario non è diverso da quello che avrebbe potuto descrivere Stendhal nelle sue Passeggiate romane. L’autore girò molto per Roma in diverse occasioni della sua vita, lasciando testimonianze e racconti, come quello sulla vita di Francesco Cenci in Le cronache italiane.
Roma, fine del Cinquecento. Una città di bellezza decadente e corrotta: in questo scenario di potere e violenza si svolge la vicenda di Beatrice Cenci, una giovane donna divenuta simbolo di ribellione e sventura, nata nel 1577 da una delle famiglie più potenti di Roma. La voce off ci conduce fra chiese e palazzi fino alla Chiesa di San Pietro in Montorio e con le parole di Alexandre Dumas fin sotto l’altare, dove in una tomba con una semplice croce e la scritta Orate ci sarebbe il corpo della protagonista di una delle vicende più tristi della storia romana. Quando Dumas le scrisse, però, la tomba della ragazza era già stata profanata e il suo teschio, si dice, preso a calci da militari francesi.
Dal regno delle ombre la reincarnano le parole scelte da Giorgia Cerruti della Piccola Compagnia della Magnolia che, con Davide Giglio, Francesco Pennacchia, Francesca Ziggiotti ha deciso di portare in teatro la vicenda nello spettacolo Cenci. (Ha debuttato a Ottobre al Festival delle Colline Torinesi e ne ha raccontato Enrico Pastore).
Nobili e ricchi, ma di una ricchezza macchiata da intrighi e crudeltà, i Cenci vivevano soggiogati dalla cupa personalità dello spietato padre di Beatrice, Francesco, noto per la sua violenza e dissolutezza, con alle spalle processi e accuse di abuso di potere: ossessionato dal controllo sulla figlia, la segregò nel castello di famiglia a La Petrella Salto, in Abruzzo, isolandola, con il resto della famiglia, dal mondo. Qui, lontana dagli occhi della società, la giovane subì violenze indescrivibili, finché dopo anni di abusi, con la matrigna Lucrezia e il fratello Giacomo, ideò un piano disperato: uccidere il padre. Con l’aiuto di due complici, i tre riuscirono a drogarlo e, mentre dormiva, lo colpirono alla testa con un martello, poi lo gettarono da una finestra per simulare un incidente. Pensavano di aver finalmente conquistato la libertà. Ma la loro speranza durò poco. Il corpo fu scoperto e, nonostante il tentativo di insabbiare l’omicidio, le autorità romane iniziarono a indagare. Beatrice e i suoi familiari furono arrestati, imprigionati e sottoposti a un processo lungo e spietato. La giustizia del tempo non aveva pietà per chi sfidava l’autorità patriarcale. Non importava che Francesco fosse un uomo violento e corrotto: per il tribunale, Beatrice era solo una figlia ribelle, colpevole del peggior crimine possibile. Le torture a cui furono sottoposti furono atroci. Giacomo fu seviziato fino a confessare. Beatrice e Lucrezia, pur di non subire ulteriori sofferenze, ammisero il delitto. Il 10 settembre 1599, all’alba, la famiglia Cenci fu condotta a Piazza Castel Sant’Angelo per l’esecuzione. La folla si accalcava per vedere il macabro spettacolo. Roma intera parlava di Beatrice: per alcuni era un’assassina, per altri una martire. Beatrice e Lucrezia furono giustiziate con la mannaia del boia. La giovane aveva solo 22 anni. Si dice che camminò con dignità fino al patibolo, vestita di bianco, e che prima di morire rivolse uno sguardo freddo e fermo ai suoi carnefici. Solo il fratello minore, Bernardo, fu risparmiato, ma la sua vita fu rovinata per sempre.

Nel 1935 Artaud mise in scena Les Cenci, una sua reinterpretazione della tragedia omonima di Mary Shelley. Per Artaud, la vicenda di Beatrice non era solo una storia di violenza domestica e vendetta, ma un rituale sacrificale in cui il dolore e il sangue si trasformano in una forma di verità assoluta, accentuando il carattere viscerale della tragedia, con luci abbaglianti, urla e movimenti convulsi per immergere lo spettatore in un’esperienza sensoriale estrema. La sua Beatrice – come quella di Cerruti sotto molti aspetti, che chiama lo spettatore a correità – era una martire della crudeltà del mondo, condannata a una punizione che supera la dimensione umana per assumere un carattere cosmico e archetipico.
Giorgia Cerruti mescola questi ingredienti con quelli di Shelley che scrisse un saggio in cui descriveva Beatrice come una figura pura e angelica, vittima dell’ingiustizia e della corruzione di un mondo dominato dalla violenza maschile. La Beatrice di Shelley è una creatura delicata, travolta dagli eventi e destinata a essere ricordata più per la sua sofferenza che per il suo gesto di ribellione. Questa portata in scena pare muoversi fra la vittima dell’ingiustizia e un ruolo quasi sacro di sacerdotessa del dolore, ma filtrata attraverso la lettura più politica e sociale di Standhal, che racconta l’epoca dei Cenci, segnata dalla corruzione del potere ecclesiastico e dalla brutalità della giustizia papale.
Attraverso una messinscena rigorosa e visionaria, la compagnia costruisce un universo scenico che unisce il rigore storico a una rilettura contemporanea della figura di Beatrice, facendone un’icona senza tempo della ribellione contro l’oppressione. Centrale in questa operazione è l’uso della luce (disegno luci di Lucio Diana) e del colore sulle tinte del rosso e nero, strumenti che diventano veri e propri elementi drammaturgici, capaci di esaltare il pathos e amplificare il senso di claustrofobia e predestinazione che permea la vicenda.
Altrettanto significativa è la scelta dei costumi, curati da Serena Trevisi Marceddu e Daniela Rostirolla. Se da un lato essi mantengono una coerenza con il contesto storico, dall’altro evitano una riproduzione didascalica dell’epoca rinascimentale, optando per un’essenzialità che li rende trasversali nel tempo, grazie all’uso delle maschere. La cura meticolosa nei dettagli dei costumi si combina con una scelta di materiali e linee che conferiscono ai personaggi un’aura sospesa tra realismo e stilizzazione, ulteriormente valorizzato dall’ottima interpretazione fornita dai quattro interpreti. Questo permette allo spettacolo di collocarsi in una dimensione simbolica, evitando una lettura meramente storica degli eventi e proiettando il dramma di Beatrice in una luce universale.

Abbiamo intervistato Giorgia Cerruti.
La storia di Beatrice Cenci è davvero di una tristezza irrimediabile. Un sopruso nella sua forma estrema. Cosa vi ha attratto in questa vicenda di destino inesorabile?
La storia di Beatrice Cenci è una delle più tragiche e potenti della storia italiana, un racconto di ingiustizia, sofferenza e ribellione che ha affascinato artisti, scrittori e storici per secoli e che addolora chi la studia o la ascolta. Una giovane donna, vittima di abusi e violenze indicibili da parte del padre, che si ribella in un gesto estremo e viene punita con una crudeltà che sembra quasi simbolica, come un monito sociale. È il potere quando schiaccia chi è facile schiacciare, è la legge che non offre giustizia ma punizione, è il sacrificio di un innocente che, nei secoli, diventa mito. Beatrice è una martire laica. Cosa colpisce di più? L’ingiustizia del suo processo o la sua figura come simbolo di resistenza?
Il testo, molto bello, è un ricamo fra moltissime suggestioni letterarie fin dai primi istanti, con gli spettatori avvolti dall’oscurità. È un lavoro a tavolino o anche una drammaturgia di scena?
È in prima istanza un lavoro a tavolino, un avvicinamento largo due anni fa con decine di testi (da Shelley, Artaud, Stendhal, Dumas, Camus, Mary Shelley, Neige Sinno, Virginie Despentes fino agli atti del processo contro Beatrice Cenci) che poi sono diventati bersagli più mirati nel lungo lavoro di drammaturgia di scena e nel lavoro di improvvisazione con gli attori. Tutto ciò è divenuto, in ultima istanza, stesura definitiva svoltasi in solitudine.
Quale momento creativo della compagnia si racconta in questo spettacolo? Dentro la vicenda compare un mini Artaud impazzito, che gira in triciclo e parla un po’ come Antonio Rezza: racconta forse qualcosa anche del vostro pensiero sul teatro?
Si lavora tra corpo e parola, forse sulla presenza scenica (fuor di espressione comune). Forse questo spettacolo sta dicendo che il teatro non può limitarsi a raccontare intrecci ma vuole essere veicolo di temperature emotive, di stati energetici, vuole farsi corpo, urlo, deformazione, scommessa sulle pelle dell’attore. O magari sta anche dicendo che il dramma di Beatrice Cenci, per quanto tragico, va sporcato, frammentato, esposto al paradosso di un mancato rinascimento, storico e in parte anche teatrale.
Quale ruolo ha questo personaggio nello spettacolo? È un disturbo, un coro interiore, o una sorta di maestro di cerimonia anarchico…
È un disturbo e un disturbato dalle condizioni del mondo. È una figura estranea ma serva, senza parola, inascoltata. È un coro interiore, sì, mi suona questa definizione, porta con sé anche la tenerezza nell’osservare una creatura altra che non capisce dove sta andando il mondo. È una voce dell’inconscio, una manifestazione di tensioni sotterranee. Aprendo e chiudendo spesso le scene è anche un’entità caotica che però struttura il rito teatrale a modo suo, come un demiurgo dissacrante.

Avete sempre scelto di fare arte, la vostra arte, senza compromessi, continuando a praticare il vostro linguaggio in maniera coerente, senza adattarlo mai a mode e circostanze. Ci si sente un po’ Cenci a fare teatro così, in questo tempo?
Viviamo la creazione come un atto bello, bruciante, che si alimenta proprio di questa indipendenza o emancipazione dalle mode. È una posizione scomoda ma anche profondamente libera. Ma non nasce prima questa posizione “ideologica”; al contrario nasce il piacere di fare teatro “così” e il desiderio di non smarrire cosa ci intriga, cosa ci accende, soprattutto cosa ci traduce. La conseguenza è che, per pura “scalogna” direi ironicamente, non combaciamo troppo con il prodotto di più convalidato consumo. Detto ciò, l’incontro con gli spettatori è la fine dell’imbuto, la vera felicità, la prima comunione, il tentativo di comunicare.
Quale futuro vedi, onestamente, senza sconti, per il medium teatrale oggi?
Intrattenimento rapido, disattenzione diffusa, istituzioni pubbliche che sostengono il boom del botteghino e non il rischio culturale (rischio che non solo lavorerebbe sull’ “italiano vero” di oggi ma anche sull’Italia futura, quando avrò io 70 anni per capirci…). Per alcuni poi è addirittura archeologia culturale. Beh, non va mica bene la situazione caro Renzo, e la marginalità che connota il teatro non è, oggi, cartellino del suo valore ma fotografia di un oblio frustrante. A questo si aggiunge l’emergenza quotidiana in cui molti lavorano e versano economicamente, cosa che toglie visione e altezza di pensiero. Non dico che servono tante economie per pensare un buon spettacolo, dico che servono giuste economie per vivere dignitosamente questo mestiere. Inoltre nel sistema odierno (barricato su modelli morti da decenni ma che si mantengono in vita per non perdere agi sepolti e miopi rispetto al reale) la sperequazione di trattamento tra le varie categorie di teatranti è eticamente oscena e insostenibile.
Che fare? Non lo so, sono la parte fragile del sistema in quanto compagnia indipendente. L’unica arma a mia disposizione è la certezza che sia artigianato e non merce.
Vogliamo spenderla una parola di speranza, comunque (ride ndr)?
Liberté, égalité, fraternité.
CENCI. RINASCIMENTO CONTEMPORANEO
scrittura drammaturgica a cura di Giorgia Cerruti
suggestioni da Shelley, Artaud, Stendhal, Dumas, Camus, Mary Shelley, Neige Sinno, Virginie Despentes e dagli atti del processo contro Beatrice Cenci
regia Giorgia Cerruti
regista assistente Alessia Donadio
con Davide Giglio, Francesco Pennacchia, Francesca Ziggiotti, Giorgia Cerruti
visual Concept e Disegno luci Lucio Diana
maschere Lucio Diana, Adriana Zamboni
sound design, fonica, tavolo sonoro Guglielmo Diana
tecnico luci Francesco Venturino
costumista Serena Trevisi Marceddu
realizzazione costumi Daniela Rostirolla
danza storica Monica Rosolen
organizzazione Emanuela Faiazza
uno spettacolo di Piccola Compagnia della Magnolia
in coproduzione con Teatro Stabile Torino, CTB Centro Teatrale Bresciano, Sardegna Teatro, Scarti Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione
con il sostegno di Teatro Akropolis
in collaborazione con Istituto Italiano di Cultura di Marsiglia e Teatr Wschodni / Eastern Theatre Lublino / Boarding Pass Plus Project.