ELENA SCOLARI | La geometria e la simmetria possono essere i punti di riferimento fisici e teorici sui quali far ruotare le proprie opere. Ho conosciuto il lavoro del regista ungherese Kornél Mundruczó e della compagnia Proton Theatre nel 2019 con Imitation of life, in cui a ruotare era tutta la scena: un cubo che conteneva la cucina povera di una casa povera, dentro la quale la gravità provocava la rovinosa caduta degli arredi, ma anche quella dei punti (creduti) fermi dei protagonisti. Cittadini ungheresi, anche rom, in lotta tra il rifiuto delle proprie origini e l’orgoglio di portarle.
In Parallax, recentemente andato in scena al Teatro Strehler di Milano in tre serate da tutto esaurito, il regista e la drammaturga Kata Wéber usano ancora – fin dal titolo – una metafora geometrica: il parallasse è lo spostamento angolare apparente di un oggetto, quando viene osservato da due punti di vista diversi. E qui l’oggetto è il tema dell’identità.

La scena è sollevata dalle assi del palco, è come posata sopra un doppio fondo, anche qui c’è una cucina (non dev’essere casuale che questo locale sia ritenuto il punto caldo di una casa), inizialmente intravediamo la stanza solo al centro, grazie a una finestra. Come in una striscia, i due fotogrammi laterali accolgono la proiezione in diretta di ciò che avviene in cucina: due zoomate, una media e una più stretta, sulle facce delle bravissime Lili Monori ed Emőke Kiss-Végh e sugli oggetti che maneggiano.

ph. Nurith-Wagner-Strauss

Siamo a Budapest, madre e figlia stanno discutendo a partire da una medaglia d’onore conferita all’anziana donna in quanto sopravvissuta all’Olocausto; la madre non la vuole ritirare, ha passato l’intera vita a cercare di dimenticare di essere ebrea e, ora, non vuole una cerimonia pubblica che glielo ricordi. Che le ricordi ciò che sua madre le ha raccontato, e, cioè, che lei è nata dentro al lager, è stata partorita nel campo di concentramento, dove le altre donne hanno protetto la puerpera e hanno nascosto la neonata tra gli stracci, permettendo che si salvasse.
Sulla faccia di Lili Monori (in Ungheria è una star, ha girato più di sessanta film) si disegnano, con mirabile armonia, il dolore e il disincanto, la fatica del ricordo e il profondissimo rispetto per la madre, l’ironia e lo sprezzo leggero; nei movimenti e nel nervosismo di Emőke Kiss-Végh che la ascolta si leggono l’insofferenza, il fastidio, anche un po’ di noia. La figlia pensa alla pratica: vorrebbe trovare un certificato che trovi la sua origine ebraica ‘solo’ perché questo le consentirebbe di ottenere un posto a scuola per il figlio a Berlino, dove ora vive. L’una ha impiegato la vita a imparare a trascurare le sue radici, ma gli altri la tengono ancorata al passato, l’altra è proiettata verso il futuro del figlio, la sua ricerca nella storia familiare è volta solo a un obiettivo concreto.
Non è possibile trovare una soluzione e così – per lunghissimi minuti – irrompono robuste cascate d’acqua dai pensili, dai lampadari, dalle finestre e inondano l’appartamento e la scena (ecco a cosa serviva il doppio fondo) per lavare via ciò che è stato e, forse, spazzare le incrostazioni che non si possono sciogliere.

ph. Nurith-Wagner-Strauss

Lo spettacolo è diviso in tre parti: quella appena descritta è la prima, la più compiuta e riuscita, nonostante la sostanziale inutilità dei video e della triplicazione visiva dei piani, troppo formalmente descrittiva dei diversi livelli, che emergono chiaramente dai contenuti del bel testo e dalla recitazione ferma e penetrante delle due attrici.
Nella seconda parte spariscono riprese e video e nella stessa casa, gocciolante, arriva da Berlino il figlio maggiore di Kiss-Végh per il funerale della nonna, defunta nel frattempo. Per ingannare le ore di attesa prima della funzione il ragazzo invita un amico, questo porta altri conoscenti, omosessuali come lui, e il gruppo improvvisa lì per lì un’orgia domestica. Una lunghissima e pedissequa orgia in cui c’è chi possiede o si fa possedere sul tavolo, chi fa o riceve fellatio sulla poltrona, chi guarda trastullandosi dal lavello. Girano nudi per la stanza, si scambiano di posto o di ruolo, si mettono cazzi di gomma a ventosa sulla fronte a mo’ di corna, pippano parecchio, bevono, roba così. Per un tempo teatralmente molto lungo. È sesso e nulla più, una specie di dovere, con poca vera gioia e tanta meccanica. Durante gli amplessi si apprende, ta le altre cose, che ora tra i gay va di moda assumere preventivamente farmaci per le terapie dei sieropositivi per evitare il contagio (pare si azzeri l’eventuale carica virale) e avere, così, rapporti senza usare il preservativo. Ma il punto vero è che, anche qui, emergono diverse prospettive di vivere la propria omosessualità: chi la nasconde e mantiene una vita con la moglie, chi la sbandiera, chi – sembrerebbe – la accetta subendola.
Il festino finisce, malamente, gli uomini lasciano la casa e arriva la madre del ragazzo, in questa terza parte madre e figlio discutono ognuno le proprie condizioni, contrappongono gli elementi che fanno di loro ciò che sono. Il parallelo è, quindi, tra l’identità ebraica, che si eredita e che tramanda un carico di millenni di storia e di persecuzioni, e l’identità sessuale ed esistenziale, che non si eredita, ma è altrettanto forte e caratterizzante. Ancor più in un Paese come l’Ungheria, dove le libertà sono minacciate.

ph. Nurith-Wagner-Strauss

Tre generazioni si confrontano su cosa sia identità, su cosa la definisca, su quanto ne siamo artefici e quanto ce la ritroviamo senza sceglierla, per discendenza o per contesto sociale. Parallax non è un capolavoro, con l’eccezione del primo terzo di spettacolo gli ottimi interpreti (Erik Major, Roland Rába, Sándor Zsótér, Csaba Molnár, Soma Boronkay completano il cast) sono impegnati in azioni in cui non mancano né lungaggini, né conclusioni un po’ affrettate. Il regista pone delle questioni, importanti, basandosi su un paragone di lettura non così immediata.
Nel finale, un balletto collettivo in cui torna anche la nonna rimescola le carte, ironizzando sulla coesistenza temporale di una condizione di indagine personale e sociale che coinvolge tutti.
L’idea di Mundruczó è mostrare quanto le angolazioni da cui si guarda possano cambiare la forma di ciò che si guarda. Parallax vuole invitare a valutare più punti di vista, a considerare che spostare il fuoco può rivelare aspetti ritenuti primari o secondari a seconda, appunto, della posizione in cui osserviamo. Anche noi stessi.

PARALLAX

testo scritto da Kata Wéber, comprendendo anche le improvvisazioni della compagnia
regia Kornél Mundruczó 
con Lili Monori, Emőke Kiss-Végh, Erik Major, Roland Rába, Sándor Zsótér, Csaba Molnár, Soma Boronkay 
scene Monika Pormale 
costumi Melinda Domán 
luci András Éltető 
collaborazione artistica e producer Dóra Büki 
dramaturg Soma Boronkay, Stefanie Carp 
musica Asher Goldschmidt 
coreografia Csaba Molnár 
produzione Proton Theatre
in coproduzione con Wiener Festwochen | Freie Republik Wien, Odéon-Théâtre de l’Europe, Comédie de Genève, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, HAU Hebbel am Ufer, Athens Epidaurus Festival, Festival d’Automne à Paris, Maillon Théâtre de Strasbourg – Scène européenne, International Summer Festival Kampnagel – Hamburg, CNDO Orléans, La Bâtie – Festival de Genève
con il supporto di Gábor Bojár e dott.ssa Zsuzsanna Zanker, 220volt, Számlázz.hu, Minorities Talents & Casting, Danubius Hotels

Piccolo Teatro Strehler, Milano | 14 marzo 2025