EUGENIO MIRONE | Dal buio emergono due ombre che si proiettano lunghe sul fondo del palco, illuminate da un taglio laterale di luce calda. Nella lotta con le tenebre in cui è avvolta la scena quel poco di luce lascia intravedere uno spazio scarno: un paio di sedie, un chitarra. Nessuna scenografia, solo il fondale del palco lasciato a nudo con tutti quei segni che poco sanno di finzione scenica: uscite di sicurezza, prese a muro, i cartelli degli estintori.
Ora due voci si accavallano e impastano una cantilena di parole e suoni incomprensibili, sembra di stare in un sūq arabo ma ci troviamo a Palermo e quelle voci stanno simulando le abbaniate del mercato di Ballarò, le famose grida che i venditori intonano per attirare i clienti. Ma quella cantilena straziata ricorda anche U Lamentu siculo, l’inno di dolore alzato durante il rito pasquale per invocare la passione di Cristo. Non siamo fuori contesto, Autoritratto infatti è uno spettacolo doloroso. È doloroso perché parla del trauma più grande per i siciliani dopo la morte di Gesù: la mafia, Cosa Nostra.
Che poi, a proposito di lamenti, noi siamo un popolo a cui piace tanto lamentarsi, brontolare per noi è una sorta di autocompiacimento, si crea sempre tanto rumore attorno ai problemi, un miscuglio di chiacchiere e voci indistinte come le abbaniate del mercato di Ballarò, ma quando poi si tratta di “scannare il maiale”… tanto fumo e poco arrosto.

Ma se si riesce a scacciare via questa pesante nube di rumore rimane un palco semivuoto, un paesaggio dell’inconscio dove rivivere nel profondo il grande trauma della mafia.
Dopo quell’immensa macchina teatrale realizzata in Eleusi. Dittico sul Sacro, Davide Enia ritorna al linguaggio de L’abisso, quello di una narrazione, splendidamente accompagnata ancora una volta dalle chitarre di Giulio Barocchieri, che ha le sue radici profonde nella tradizione del cunto siciliano.
Perché il teatro è anche questo: una storia potente, la prospettiva intima e autobiografica con cui si sceglie di raccontarla e un ritmo basato su una coinvolgente partitura di parole, suoni e gesti. «Il teatro serve anche a confrontarci con la realtà che abitiamo e noi abitiamo in un paese disgraziatissimo, il paese delle cosiddette mezze verità». È lo stesso Enia a ricordarlo. Ancora oggi, infatti non possediamo una chiarezza appurata sulla catena dei fatti che portò alle uccisioni di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Quando la verità è innominabile ha bisogno della mediazione artistica per farne affiorare i contorni. Torniamo così a quel teatro sventrato che mostra tutti i suoi segni, sono i segni del nostro inconscio e sono necessari per intraprendere l’opera di cicatrizzazione.
Autoritratto è, allo stesso tempo, un rito personale e collettivo. È il viaggio intimo di un giovane neomaturato palermitano alla ricerca dell’apparizione del male; ma chi sta parlando è anche un’intera generazione che stava diventando maggiorenne e tutta una città che si confronta con la sua storia.
Una ricerca che poggia su una base di ricordi personali ma che si apre anche al dialogo con i propri coetanei e i compagni di allora e alle interviste agli abitanti di Palermo. Più che raccontare la grande Storia con le piccole storie, Enia tende verso la creazione di un rito all’interno del quale collocare l’apparizione del male che apra a una riflessione intima e comunitaria. Che poi è quello che accade in teatro.
Dunque il montaggio prosegue per episodi, tra ricordi di adolescenza e incontri nel presente: la prima volta che Davide ha visto un morto ammazzato aveva otto anni, lo ha trovato sul tragitto di scuola proprio all’altezza dell’abitazione del suo migliore amico, Peppe Malato, che dopo aver sentito gli spari non vuole più uscire di casa. Il male e il dolore fanno crescere in fretta, le parole che quel bimbo rivolge ai suoi genitori risuonano nette e taglienti: «la colpa è vostra che mi fate vivere in una città dove uccidono le persone sotto al nostro balcone». Di fianco a me in platea c’è seduta una mia amica siciliana, a fine spettacolo mi confida che quella è una frase che le è risuonata in testa per tutta l’infanzia. Poi il racconto prosegue: ora sono tre funzionari della DIA in pensione a raccontare a Enia il passaggio dalla “mafia delle famiglie” al potere assoluto dei Corleonesi.
L’episodio più significativo è il racconto dell’uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo, la cui unica colpa fu quella di essere il figlio di un collaboratore di giustizia. «Alliberateve de lu cagnuleddu», era stato l’ordine dato Giovanni Brusca al fratello Enzo Salvatore che l’11 dicembre 1996, insieme Giuseppe Monticciolo e Vincenzo Chiodo, prima strangolò Giuseppe e poi sciolse il corpo del ragazzino nell’acido, dopo 779 giorni dal suo rapimento. 779 giorni senza vedere la luce del sole, 779 giorni in cui molti lì intorno sapevano ma nessuno parlò.
Il racconto del tragico avvenimento coincide con la descrizione schematica delle azioni dei tre carnefici. Non serve aggiungere altro alla tragicità dell’evento. È una scelta narrativa assennata, oltre che pudica, perché quella sequenza di azione fa emergere la totale e disarmante mancanza di coscienza in quei soldati di morte: «erano ordini che ci venivano dati».
Sembra paradossale ma Enia non ha memoria di dove si trovava il 23 maggio 1992. La strage di Capaci lo ha trapassato con un carico di angoscia talmente grande da lasciare il vuoto dentro di lui. Più nitido è il ricordo della strage di via d’Amelio, quel 19 luglio disgraziato in cui le foglie caddero dagli alberi quando non dovevano.
Se si volge lo sguardo al passato si noterà che quasi mai nella storia le politiche proibizioniste hanno sortito gli effetti sperati. Il male, infatti, non si cancella ma lo si può erodere a poco a poco come l’acqua del mare che consuma gli scogli onda dopo onda. È questa la via intrapresa da Enia con Autoritratto per mezzo di una ritualizzazione collettiva del male che ci renda tutti più consapevoli: «bisogna capire che quando nella tua città ti trovi di fronte una pozza di sangue, l’immagine riflessa è il tuo autoritratto».
Di pozze di sangue il nostro paese è pieno, è inutile girarci intorno. Quello che infonde coraggio è sapere che il proprio vicino di seduta condivide con me un po’ di quel male e che insieme contribuiamo a frantumarlo, un pezzetto alla volta. In questa occasione, più del solito fa rabbia vedere una platea mediamente avanti con l’età e le ultime due file vuote. C’era posto almeno per una classe di liceo. Fa rabbia perché i programmi scolastici trascurano completamente la storia del secondo Novecento italiano, un periodo cruciale per capire come affrontare il presente. Fa rabbia perché questa generazione di giovani così fragile e spaurita avrebbe tanto bisogno di esporsi al potere terapeutico del teatro.
Per superare un trauma occorre tempo, e la mafia è uno delle ferite più recenti del nostro Paese. Per questo è indispensabile lavorare costantemente nell’ottica di un passaggio generazionale, affinché il rito non si trasformi solo in una danza attorno a un fuoco spento.
AUTORITRATTO
di e con Davide Enia
musiche composte ed eseguite da Giulio Barocchieri
luci Paolo Casati
suono Francesco Vitaliti
luci e fonica Francesco Vitaliti/Paolo Casati
si ringrazia Antonio Marras per gli abiti di scena
coproduzione CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Accademia Perduta Romagna Teatri, Spoleto Festival dei Due Mondi
Piccolo Teatro Grassi, Milano | 6 aprile 2025