LAURA BEVIONE e RENZO FRANCABANDERA | LB: In queste settimane la compagnia romana – anche se una delle sue anime, Francesca Macrì, è milanese di nascita e giovinezza – sta portando in teatro il suo ultimo lavoro, Io non ho mani che mi accarezzino il viso, un originale e concentrato tentativo di proporre in scena la poesia e le riflessioni che quel denso linguaggio riesce a suscitare.

Lo spettacolo giunge a cinque anni di distanza da Porco Mondo e dopo l’intensa attività realizzata con gli adolescenti – a Roma e, nell’ottobre scorso, a Napoli – a partire da Shakespeare e, in particolare, da Romeo e Giulietta. Un percorso dilatato nei tempi che corrisponde a un analogo tragitto compiuto dalla compagnia – Francesca Macrì e Andrea Trapani – all’interno della propria ispirazione e del proprio peculiare linguaggio. Un viaggio di formazione e crescita che ha condotto a toni certo più “pacati” ma non meno sferzanti; a un’interrogazione sul senso più profondo dello stare al mondo che, alla rabbia, ha sostituito una disincantata ma non meno disperata – e disperante – lucidità; a un’ammissione di debolezza che è testimonianza di granitica forza d’animo.

RF: Biancofango è sicuramente una realtà della scena italiana di quelle che si muovono in una dimensione creativa autonoma e originale, cercando con fatica il proprio linguaggio nel tempo, attraverso progetti e iniziative che stratificano nel tempo le scelte estetiche, distillano il coraggio del proprio segno, della cifra e del sostrato concettuale dell’indagine. Attraversare come hanno fatto loro il senso della poetica interiore per tradurlo in un fatto d’arte, che non sia scelta del fare ma del sentire prima di tutto, è cosa rara, di cui alla compagnia va dato atto. Scegliere rispetto a questo da quale parte stare, nel nostro tempo così povero di risorse, non è banale. Penso a questa scelta come al tentativo, prima ancora che di fare arte, di comprendere la società in cui si vive, e stabilire in che relazione si è rispetto a essa, e poi da questo far scaturire la ricerca e  l’urgenza del proprio segno.

LB: In Porco Mondo c’erano il disgusto e l’irritazione per una società in cui non ci si riconosceva; c’era la frustrazione derivata dalla mancata realizzazione di progetti e aspirazioni di vita, così come dalla mancata corrispondenza di sentimenti intensi e viscerali. C’erano canottiere bianche e accumulazione; una fisicità accentuata e un urlo disperatamente arrabbiato contro un mondo ostile.

RF: La dimensione della lotta affannata e per certi versi arrabbiata era già nella cifra di Fragile Show, del 2009, ispirato a Il soccombente di Thomas Bernhard, dove il tema del non riuscire, ripreso poi in Porco Mondo, aveva già tutta la sua scivolosa consistenza. Ma questo recente e per molti versi poetico ed emozionante nuovo passo è qualcosa che va oltre, che accende le luci su cosa fare dopo il fallimento, dopo aver preso atto di non essere riusciti. In scena ci sono già gli sconfitti, non persone che tentano e non riescono.

LB: Ci sono Schubert e la neve, un’atmosfera dilatata e sospesa, abiti elegantemente neri, in Io non ho mani che mi accarezzino il viso, spettacolo che si interroga sulla “fragilità”, partendo da due personaggi della letteratura teatrale – Woyzeck e la Giovanna di Santa Giovanna dei Macelli – in cui i due interpreti – lo stesso Andrea Trapani e Aida Talliente – si identificano, brechtianamente però.

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RF: A definire il confine fra personaggio e identità contribuiscono in questo allestimento le bellissime luci di Gianni Staropoli e il suono di Umberto Fiore, non di rado composto dall’interno, attraverso sintetizzatori, dalla Talliente stessa. Parliamo di un’artista dalle sfumature così ricche e dai talenti così multiformi che resta inspiegabile come tanta materia fungibile al trasferimento emotivo dal palcoscenico alla sala non trovi una più continua presenza nell’arte dal vivo. E’ quindi con compiacimento che plaudiamo alla scelta di Biancofango di aver scelto questa interprete per un’operazione così complessa come Io non ho mani… Anche perché in questo spettacolo da raccontare non c’è una vera e propria vicenda, secondo me, perché si incontrano due caratteri che vivono il respiro del raccontare quale forma possibile della speranza. La poetessa dal tratto quasi sacerdotale e il pianista operaio, il loro incomprensibile, a volte, riferirsi a questi due rimandi letterari, come ad archetipi dell’identità profonda, senza che però ciò si riveli veramente la chiave per la comprensione del tutto, è una sottile operazione di crocifissione dello spettatore alla sua componente irrazionale e debole.

LB: I due attori entrano ed escono da quello che non è tanto un personaggio, quanto una figura/epitome di un modo di stare al mondo con il quale si avvertono intime affinità. La rabbia esterna e rumorosa di Porco Mondo si fa interiore e universale, la consapevolezza della maturità non cancella l’illusione – «speriamo tutti insieme» scrive sul pavimento l’attrice – e gli sbigottimenti – la neve del finale – dell’infanzia.

RF: Siamo di fronte ad un’operazione, fuor di ogni dubbio, coraggiosa, che ha meritato il passaggio nella stagione dell’Elfo Puccini di Milano. Perché ha scelto di abiurare al fatterello teatrale, al compiacere il pubblico. Lo lascia con nient’altro che il coccio, il pezzo di vetro tagliente di un sentire che lo spettacolo aiuta a vedere ma che consegna a chi è al di qua della quarta parete sapendo di guardarlo fisso negli occhi e intendendosi non sul fatto che il pezzo tagli, ma sulla certezza che lo abbia già fatto.

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LB: Azioni e dialoghi rifuggono frenesia e grida preferendo sottolineare e rimarcare determinati passaggi con un inventivo ed esso stesso “poetico” disegno luci e un discorso drammaturgico parallelo e complementare sulla voce e sul suono realizzato agendo sulla distorsione e sull’utilizzo di vari microfoni.

RF: Dal punto di vista sia interpretativo che registico in senso ampio l’esito è ricco, composito, non banale. E come tutte le operazioni complesse ha anche delle fragilità, consistenti probabilmente in un amalgama non facile di fisicità e caratteristiche emotive dei due spiriti in scena. E’ di certo un corto circuito voluto, ma che ha anche i suoi rischi, non tutti risolti. Ma al netto di questo e di alcuni passaggi dove probabilmente il rimando al letterario si fa un po’ troppo sofisticato ed ermetico, siamo certamente di fronte a una creazione interessante, che ricorda alcuni passaggi della Gualtieri e freddezze sceniche che ricordano alcune scelte di Ronconi o della Calamaro, ma che in questo composto drammaturgico hanno un’indubbia cifra di originalità.

L.B.: Uno spettacolo che testimonia di una ricerca – esistenziale prima ancora che drammaturgica – personalissima e testarda, refrattaria a mode e ammiccamenti e strenuamente coerente nell’indagine sul senso profondo del nostro stare al mondo e di conseguenza, sul palcoscenico.

IO NON HO MANI CHE MI ACCAREZZINO IL VISO

Drammaturgia di Francesca Macrì e Andrea Trapani.

Regia di Francesca Macrì.

Scene del Teatro della Tosse. Luci di Gianni Staropoli. Suono di Umberto Fiore.

Con Aida Talliente e Andrea Trapani.

Prod.: Teatro dell’Elfo, Fattore K, Fondazione Luzzati-Teatro della Tosse, in collaborazione con Armunia, La Città del Teatro di Cascina, Teatri di Vetro, Twain Residenza di Spettacolo dal Vivo a Ladispoli.