MATTEO BRIGHENTI | Sembra lui. Mario Perrotta sembra Domenico Modugno. Non tanto per le comuni origini pugliesi, quanto soprattutto per l’identica ricerca di un altrove a cui legare il desiderio di una vita nell’arte. «Ho creduto sempre che dovessi cercarla fino in fondo, perché c’era, da qualche parte – afferma Perrotta – così, per poter fare l’attore, anch’io sono partito a 18 anni da un Salento dimenticato da Dio».
Lavamacchine l’uno, gommista l’altro, entrambi camerieri. Fino all’affermazione grazie alla lingua della loro terra: il dialetto salentino. «Modugno ci scrive le sue prime canzoni. Ricorda il siciliano (fa parte della medesima area linguistica), per questo Mimì sarà presentato come tale, e alcuni ancora pensano lo sia – rammenta – 30 anni fa, quando ho iniziato, recitavo testi di Shakespeare, Molière, Čechov e, con il Teatro dell’Argine – continua Perrotta – mettevamo in scena nuova drammaturgia, ma sempre in italiano. Con Italiani cìncali arriva il dialetto: qui trovo le ragioni emotive del mio scrivere».
Nel blu – Avere tra le braccia tanta felicità, il suo nuovo spettacolo prodotto da Permar, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, con Vanni Crociani, Giuseppe Franchellucci, Massimo Marches, oltre allo stesso Perrotta, agli arrangiamenti e l’ensemble musicale, è dunque quel ritorno a casa che chiude il cerchio di un’esistenza, trovando nel passato le radici di un presente che gli consegna finalmente la libertà di essere chi è.

Nel blu. Foto di Luigi Burroni

Ci vuole una vita intera per guardarsi allo specchio. Perrotta lo dimostra con questo lavoro di svolta, che ho visto all’anteprima al Funaro di Pistoia, e lo ribadisce in questa intervista per PAC, che capita tra l’ultima replica al Teatro degli Industri di Grosseto e la prima al Franco Parenti di Milano (è in scena dal 18 al 23 marzo). «L’immagine dello specchio torna spesso nello spettacolo. È come dire: se ti guardi da fuori, capisci chi sei, e non devi più avere paura». Facciamo “giri immensi” per poi ritornare al punto di partenza, quando la risposta è sempre stata lì, davanti ai nostri occhi. «Sì, è così, ma forse questo processo è il motore dell’esistere».

Qual è il tuo primo ricordo di Domenico Modugno?

Mio zio che, tenendomi sulle ginocchia, mi canta La donna riccia. Era il 1972, avevo due anni. Sono cresciuto nel mito di Domenico Modugno. Da bambino mio nonno mi portava spesso nel suo paese, San Pietro Vernotico (paese del Salento in cui cresce dai tre anni in avanti, pur essendo nato a Polignano a Mare, nella zona del barese), che peraltro era accanto al suo, e mi diceva: «Qui è cresciuto lui». Non lo nominava neanche, era solo «lui». Modugno, per noi salentini, è come Maradona per i napoletani.

Dunque, è una presenza costante nella tua vita. In che momento della tua carriera arriva la decisione di dedicargli uno spettacolo?

Nel 2021 ho cominciato a pensare a una trilogia sulle parole delicate del nostro tempo. Nel 2023 ho affrontato la libertà con Come una specie di vertigine. Il Nano, Calvino, la libertà. Poi, volevo parlare di felicità. Ho pensato all’Italia prima del boom economico, un’Italia carica di voglia di fare, di esistere. E mi sono chiesto: chi è che incarna meglio di tutti quel periodo? Domenico Modugno.
Nel blu nasce dalla sua scena finale. Un giorno sono andato in ufficio e ho detto al mio gruppo di lavoro: voglio fare uno spettacolo su Modugno che si chiude con il ritornello di Volare troncato a metà.

Foto di Luigi Burroni

È un finale molto evocativo, racconta quanto il teatro si fermi sempre sulla soglia, un attimo prima che accada la vita vera, quella che tutti conosciamo. Nel blu possiamo definirlo come un viaggio rintracciato sulla mappa di un uomo, di un artista, alla ricerca di affermarsi, di poter dire chi è?

L’ho immaginato proprio come un viaggio all’interno della testa di Modugno, avanti e indietro nel tempo. Infatti, la struttura non è cronologica. Prima di cantare Volare canto canzoni che, in realtà, sono state scritte dopo, però le colloco in una struttura drammaturgica precisa. Per cui, Dio come ti amo la usa per recuperare il rapporto con la moglie, così come Meraviglioso la scrive davvero due anni dopo che il padre si è suicidato. E quindi, il Modugno che canta il suicidio di L’uomo in frack o di Lu pisce spada, improvvisamente scrive una canzone contro il suicidio dopo la morte del padre.
Dunque, è un viaggio nel tempo nella testa di quest’uomo per raccontare quello che hai detto tu, cioè una voglia di realizzazione. Questa cosa me l’ha insegnata con molta chiarezza la moglie, Franca Gandolfi, una signora 92enne lucidissima, che mi ha detto che oggi siamo tristi, perché aspiriamo solo ai soldi. Loro erano felici, perché aspiravano a realizzarsi. Sono cose totalmente diverse, no?

Nel tuo racconto Domenico Modugno è come spinto da una forza della storia, che lo fa essere sempre nel posto giusto. Lascia fare agli eventi, si lascia guidare, fidandosi, comunque, delle sue capacità.

Era pieno di talento, è innegabile, in ambito artistico avrebbe potuto fare qualunque cosa. Comunque, lui si adatta alle cose che arrivano e questo, forse, è uno dei segreti di una felicità delle piccole cose. In realtà, aveva studiato al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, voleva fare l’attore con tutto sé stesso, non il cantante, o meglio il cantautore. Alla moglie, la sera dopo la vittoria di Volare a Sanremo, dice: «Da domani non mi chiameranno mai più per fare l’attore». È stata una chiave drammaturgica fenomenale, Franca me l’ha regalata su un piatto d’oro. Alla fine, ha preso quello che c’era, l’importante era realizzarsi. Ha seguito il vento delle cose che gli accadevano intorno, capendo che quello era il suo destino, e ci si è fiondato dentro.
Allo Storchi di Modena per il debutto c’erano una quarantina di adolescenti. In camerino, a nome di una piccola delegazione, si è fatta avanti una ragazzina di 16 anni: «Abbiamo capito che nella vita si può fare». Nel blu fa davvero ciò che credo debba fare il teatro: una persona su cento è tornata a casa con occhi nuovi. Lo trovo straordinario. Ecco, Modugno questa percezione che nella vita si può fare ce l’aveva nel DNA.

Foto di Luigi Burroni

Abbiamo parlato dell’io. Chi è, invece, il tu nello spettacolo?

È un flusso e serve da controcanto, da deuteragonista. Dal padre alla moglie, da Frank Sinatra a Franco Migliacci con cui scrive Volare, i tu si alternano senza soluzione di continuità, perché hanno fatto tutti lo stesso lavoro rispetto all’esistenza di Modugno. Quando cercava con tutto sé stesso la sua strada, tutti questi tu gli hanno insegnato che la vita è sanissimo compromesso e, a volte, è anche durezza.

Solitamente usiamo l’espressione “allargare le braccia” per indicare impotenza e rassegnazione. Invece, pensando a Modugno, alla sua partecipazione a Sanremo con Volare, significa l’esatto contrario: eccomi, ci sono. Un’immagine che viene incredibilmente da lontano, ed è tra le scoperte più sorprendenti di Nel blu.

Ha vent’anni, fa la comparsa a Cinecittà, è il 1949. Gli dicono: tu scendi dal taxi, fai un cenno a qualcuno e vai, basta. E lui, invece, scende e si sbraccia. Viene ripreso dal regista: per colpa di una comparsa rifarà la scena quattro volte. Questo gesto torna, nel mio testo, quando deve chiamare il taxi per raggiungere Frank Sinatra, che lo vuole conoscere. E poi a Sanremo.
Ha passato mesi, prima del Festival, davanti allo specchio, a capire come usare le braccia, a provare questo gesto, che avrebbe cambiato la storia della televisione, della musica, di tutto. In questo protendersi verso il mondo sentiva che c’era una forza. Aveva una coscienza istintiva della sua fisicità: a stargli vicino tutti dicono che era un vulcano.

In scena, tu canti Modugno, ma non rifai Modugno, ne abiti l’intenzione. Come vivi il passaggio tra il cantato e il recitativo?

Lo spettacolo su Calvino lo chiudevo cantando Il mondo di Jimmy Fontana, una versione molto particolare. Tutti mi hanno detto: ma sai che canti bene? Mi ero sempre tenuto alla larga dal cantare in scena, pensavo che non fosse il mio. Con quello spettacolo mi hanno come dato il via libera, e adesso me la canto e alla grande. Per me, recitare e cantare ora è un unico filo che si svolge. Non lo sento più quel passaggio. All’inizio, in prova, titubavo molto, mi sembrava di fare una cosa che non fosse la mia. Poi, grazie al lavoro fatto con i musicisti, mi sono sentito a casa.

Foto di Luigi Burroni

Che rapporto avete costruito?

Io non so leggere la musica, non so scriverla, ma ho una cultura musicale molto solida. Vengo da una famiglia di loggionisti, da bambino mi portavano alla lirica, alla sinfonica, con mio zio ho cominciato ad ascoltare il jazz, poi il pop. Quindi, ho dato delle suggestioni ai musicisti e loro le hanno accolte, traducendole in fatti musicali. È stato un continuo rimpallo tra di noi. Non facciamo quello che faceva Modugno, né come arrangiamenti, né come tempi, né come atteggiamento. Sarebbe stata una sconfitta, no?
Il nostro è stato proprio un vero laboratorio. Ho chiesto loro di non essere solo un accompagnamento, cosa che detesto, ma di essere la voce dell’anima musicale di Modugno, di raccontare quello che le parole non riescono a raccontare. Dal mio punto di vista, hanno raggiunto perfettamente l’obiettivo. Sono una forza dello spettacolo, un potenziatore di significati.

È un dialogo, uno scambio continuo tra arte e vita, tra canzoni e parole, come se le une fossero il prolungamento delle altre. Che umanità artistica hai trovato dentro di te con Nel blu? Nel vederti in scena, ho avvertito una diversa postura, più defilata del solito, se mi passi il termine. È come se ti fossi davvero lasciato attraversare da Domenico Modugno.

Non so se è Modugno, se è la familiarità che ho con la sua storia, se è il sentirlo proprio un pezzo della mia cultura, della mia anima, della mia terra, che mi ha messo addosso questa nuova postura, questa leggerezza nello stare in scena. Forse, ecco, sarebbe accaduto con qualunque altra storia a questo punto della mia vita, a 55 anni, che ho compiuto una settimana fa.
È come se fossi entrato in una maturità artistica, per cui so che posso fare quello che faccio. Mi sono liberato dai dubbi, e quindi mi porto in scena senza il bisogno di dover dimostrare qualcosa a me stesso, così come ai critici, agli addetti ai lavori, al direttore del teatro che ti viene a vedere, al pubblico. Con questo spettacolo ho smesso di sentirmi sotto giudizio. Ora non devo dimostrare più niente a nessuno.