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venerdì, Maggio 9, 2025
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Peccati capitali contemporanei e a-temporalità dell’arte

1BRUNA MONACO | Germania, Francia, Italia. A cavallo fra queste tre nazioni si muove Der Tod in Venedig/Kindertotenlieder. La regia è tedesca, di Thomas Ostermeier. Italiano lo sfondo e il terreno in cui è germogliata l’idea. In Francia poi lo spettacolo è stato prodotto e realizzato. Durante la Biennale di Venezia del 2011 Thomas Ostermeier fu invitato a tenere un laboratorio per giovani attori provenienti da varie nazioni. Tema degli incontri, i sette peccati capitali della contemporaneità. Ostermeier pensò alla pedofilia, e a La morte a Venezia dell’illustre connazionale (Der Tod in Venedig il titolo originale). L’occasione per continuare a scandagliare un tema e un testo così caldi si presentò a Rennes l’anno successivo nel quadro del Festival Mettre en scène, luogo ideale d’esplorazione per drammaturghi registi e coreografi che non vogliano smettere di interrogarsi e interrogare i linguaggi teatrali, quelli noti e quelli ancora sconosciuti.

Questa breve genesi di Der Tod in Venedig/Kindertotenlieder che è stato in scena al Théâtre de la Ville di Parigi fino al 23 gennaio, ed è l’ultima tappa, per ora, di una breve tournée europea, era necessaria per inquadrare un lavoro così singolare, così difficilmente riconducibile alla fin qui nota “poetica” di Thomas Ostermeier. La sua fama degli ultimi anni è legata ai geniali adattamenti dei testi di Ibsen, ma il suo repertorio spazia da drammaturghi contemporanei come Sarah Kane, Lars Norén, Jon Fosse ai classici (Shakespeare, Brecht, Büchner). La sua specialità è leggere, secondo un’ottica nuova e sempre ficcante, il conflitto drammatico alla base dei testi. Una lettura innovativa, incurante delle interpretazioni che anni di critiche, esegesi e messe in scena hanno depositato sui testi originali. Ma sempre di drammaturgie si era trattato. Con Der Tod in Venedig/Kindertotenlieder, invece, Ostermeier lascia il terreno noto del conflitto drammatico e si fa largo nella psicologia di Gustav von Aschenbach, uomo di mezza età fatalmente attratto dal giovanissimo Tadzio. Il conflitto è tutto interiore, il testo di Thomas Mann è letterario e Ostermeier lo affronta senza “drammatugizzarlo”, dialogizzarlo: se nelle messe in scena precedenti, complice l’acutezza del drammaturgo Marius von Mayenburg, gli adattamenti testuali erano raffinati e persuasivi, qui il lavoro di riscrittura è meno pregnante. Interi segmenti del romanzo sono letti da una voce fuori campo che intessendosi ai Kindertotenlieder di Gustav Mahler (eseguiti in scena da un pianoforte e dalla voce dello stesso von Aschenbach interpretato da Josef Bierbichler) si fa colonna sonora della scena muta: i personaggi non interagiscono a parole ma attraverso sguardi carichi di pathos. Le parole, quando ci sono, sono irrilevanti, dette da personaggi secondari e si addensano prima di raggiungere le orecchie del pubblico in un brusio che va ad arricchire la tessitura musicale. L’importanza della musica è più significativa di quanto appaia. La morte a Venezia di Mann e i Kindertotenlieder di Malher costituiscono in egual misura il fulcro della narrazione ed è chiaro fin dalla bipartizione del titolo Der Tod in Venedig/Kindertotenlieder. Ostermeier non mira semplicemente a una trasposizione scenica del testo di Thomas Mann, tant’è che, per non essere influenzato nel lavoro, ha dichiarato di aver atteso che il suo spettacolo debuttasse prima di vedere il capolavoro di Visconti; la pedofilia come uno dei sette peccati capitali contemporanei è all’origine di questo spettacolo. I Kindertotenlieder, letteralmente “canto della morte dei bambini” sono allora una più o meno sottile allusione, pervasiva, all’assassinio dell’infanzia perpetrato dai pedofili?

Purtroppo però prescindendo dalla genesi dello spettacolo, se vi si assistesse senza informazioni sul suo processo di creazione, la questione pedofilia sarebbe poco intelligibile, nonostante ci sia qualche riferimento. Der Tod in Venedig/Kindertotenlieder è forse troppo cerebrale, manca dell’efficacia comunicativa che contraddistingue le precedenti produzioni di Thomas Ostermeier. Forse il sodalizio con Maja Zade (che firma la drammaturgia) non è ancora ben collaudato. Forse l’avvicinamento a un linguaggio nuovo ha bisogno di un periodo di assestamento: Der Tod in Venedig/Kindertotenlieder è più simbolico ed evocativo dell’Ostermeier classico, si conclude con la danza astratta e un po’ selvaggia di tre donne, sotto una pioggia di cenere. I risultati positivi di questa ricerca però, li vedremo presto senza dubbio, in uno spettacolo nuovo e più consapevole.

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L’«Angelo della gravità» di Sgorbani sospeso tra colpa e follia

angeloVINCENZO SARDELLI | Essere piccolo e pesante. Al contrario degli aquiloni, che sono grandi e leggeri. Il monologo Angelo della gravità (soggetto Massimo Sgorbani, regia Domenico Ammendola, con Leonardo Lidi, visto al Teatro Oscar di Milano) mette in scena la vicenda di un uomo condannato a morte per omicidio.

Colpo di scena: l’esecuzione è rinviata a data da destinarsi. Il detenuto è obeso. La corda con cui sarà impiccato potrebbe spezzarsi.

Inizia così un flashback nel passato del protagonista, partendo dall’infanzia. Su una scena con due pigne di palloni di lattice bianchi che riempiono in verticale l’occhio del pubblico. Palloni gonfiati come particelle d’adipe. Barriere contro le insidie del mondo. Soffici come l’uomo paffuto sul palco, in canottiera e mutande, su un cuscino esso stesso sinonimo di pinguedine. Dall’alto cala un microfono un po’ cappio un po’ gancio con il presente, quando il racconto psicanalitico del passato s’interrompe, e la voce metallica di Lidi dà corpo all’attualità, allo spettro dell’esecuzione.

Angeli della gravità e angeli della morte. Angeli come astronauti, che galleggiano nello spazio; o come diavoli, che cadono verso l’inferno, «il posto dove la pesantezza ha vinto una volta per tutte sulla leggerezza».

Uno spettacolo giocato sui paradossi. Tra infanzia dell’anima e crescita esponenziale del corpo. Tra i ricordi, i segni di un passato maledetto, e il loro impatto devastante sul presente.

Colpa, follia, incoscienza. L’incontinenza alimentare diventa sfrenatezza sessuale. Il cibo è compensazione di tormenti esistenziali. E allora la soluzione è la partenza per l’America. Con il pretesto d’imparare l’inglese. Per levarsi dai piedi. Per sfinirsi di cibo. In un luogo dove i panini sono quelli dei fumetti, i supermercati aperti anche di notte, gli obesi a ogni angolo della strada. E nessuno li chiama grassoni.

Eccessi bulimici e immaturità psicologica distinguono un personaggio che sovrappone amore e pornografia, e infierisce con naturalezza su una donna che rifiuta le sue avances. Un delitto che è delirio, antropofagia e necrofilia, e mescola eucaristia e potere (salvifico?) del sesso.

Nasce un duplice nodo critico: perché una pièce che affronta temi sensibili (giustizia, tolleranza, bullismo, affetti familiari, disturbi alimentari, sessualità, religione) esclude a causa della sfrontatezza verbale il pubblico under 16; e perché ci sembra pretestuoso che un poveretto incapace di distinguere realtà e fantasia, e capovolge ogni senso morale in un mix di follia e superstizione, sia mandato da solo allo sbando in un luogo come l’America, pur da una famiglia disfunzionale.

La regia carica i toni grotteschi. Lidi dà corpo a una recitazione a tratti arzigogolata, dalla sonorità ricercata. Del personaggio risalta la schizofrenia, non il dolore: l’ironia e l’inconsapevolezza, non la malasorte. Gli espedienti scenici (in primis le emissioni sonore e le luci, curate da Lorenzo Savi) disegnano un tempo dilatato, anch’esso ipertrofico.

L’epilogo della morte, è catarsi, epifania antigravitazionale. Finalmente i grappoli di palloni in scena possono staccarsi, sparpagliarsi sulla platea come tante lune, in un’emancipazione surreale che dovrebbe essere parusia. Il senso d’angoscia non arriva però al pubblico. Che attende la fine del condannato tra qualche risata e poche paranoie. Con il ricordo di qualche bella frase, ma con poche emozioni memorabili.

Enzo Cosimi, l’Alfa e e l’Omega

enzo

VINCENZO SARDELLI | Fa effetto vedere in scena, in stretta sequenza al Teatro dell’Arte, Calore e Welcome to my world di Enzo Cosimi, opera prima (1982) e ultima (2013) di un coreografo che in mezzo ci ha messo di tutto: collaborazioni svariate tra Europa, Asia, Americhe e Oceania, comprese le coreografie della Cerimonia di apertura delle Olimpiadi Invernali di Torino 2006. Trent’anni di percorso. Cambiamenti epocali, prima ancora che artistici.

Se l’arte è proiezione del contemporaneo, sorprende il tempismo con cui Cosimi, in Calore, avesse intuito le derive patinate degli anni Ottanta: edonismo, paillettes, visione ottimistica, un po’ frivola, della vita. Ugualmente, sconcerta riflettere sull’antitetico esito catastrofistico di Welcome to my world.

Ma andiamo per ordine. Calore (con Francesco Marilungo, Riccardo Olivier, Francesca Penzo, Alice Raffaelli; musiche: Glenn Branca, Benjamin Britten, Liquid-Liquid, Chris Watson; disegno luci: Stefano Pirandello) è soprattutto colore. Sin dal fondale azzurro che evoca scenari vacanzieri. Sin dal dilagare di limoni che riempiono la scena con il loro giallo solare, nell’armonia festosa di uccelli pigolanti che il ronzio di un moscone non turba. I famigerati (per i nostalgici della Beat Generation o della musica Prog) anni Ottanta rivivono fra riti tribali e uomini in canottiera e mutande, adescati da una donna di verde vestita che ha alzato la cresta e scandisce il suo incedere su tacchi a spillo. Balli disinibiti, clangori metallici, suoni elettronici sono la cornice all’aggressività spaccona e languida di quegli anni. Le coreografie patinate di Cosimi rendono bene un’età in cui l’infanzia tende a prolungarsi, e un’umanità in posa tra una birra, un amplesso e il mito di una vita secondo natura, naufraga nell’incoscienza.

Agghiaccianti scenari di distruzione caratterizzano Welcome to my world (interpreti: Paola Lattanzi, Alice Raffaelli, Francesco Marilungo, Riccardo Olivier; rubber mask: Cristian Dorigatti; musiche: Chris Watson, John Duncan, Pansonic, Brian Eno; disegno luci: Stefano Pirandello). Qui la sbornia edonistica è smaltita. Echi di mantra tentano di esorcizzare l’oscurità. Bagliori estemporanei definiscono corpi seminudi, pupazzi semoventi. La potenza della natura è soverchiata da rumori sfibranti, rombi, tuoni, vapori. L’uomo, con forza distruttrice, viola l’armonia del cosmo. Se Calore era trionfo vitale, qui la danza è immateriale, fragile, tra suoni sordi e colori cupi. Il cinguettio aurorale di Calore qui è stridore notturno alienante. Un pessimismo cosmico sembra avvolgere una danza intrisa di simboli tetri. I performer si muovono al rallentatore, annichiliti, mascherati, grondanti sangue. È un’umanità spodestata e ottusa. Con l’epilogo su un uomo lancetta, a scandire un tempo indefinito.

Il filo conduttore tra i due spettacoli è la capacità di Cosimi di tratteggiare scenari visionari, concetti caustici, con una partitura incisiva, aperta e vivace.

Più che un cambiamento di stile, si avverte un mutamento degli stimoli alla base della scrittura. In Calore è dirompente la frenesia di una generazione multicolore, trionfante, nevroticamente stordita da ritmi pop. Welcome to my world propone una natura antropizzata, insidiosa, morente, con maschi dimessi di fronte all’impeto femminile, costretti a vogare controcorrente. Uomini ammorbati, incapaci di affrontare lo scempio.

Enzo Cosimi: l’Alfa…

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…e l’Omega [youtube http://www.youtube.com/watch?v=lPmtXByLq2M&w=560&h=315]  

Al Valle Occupato “Il guaritore” di Michele Santeramo

foto-Andrea-Casini-1-0124LAURA NOVELLI | Una lunga panca chiara rimanda l’idea di un luogo-non-luogo dove si aspetta qualcosa o qualcuno. Uno studio medico, forse. Ma anche una panchina su cui sedersi per scambiare due chiacchiere. Un sostegno agli affanni della vita, della vecchiaia. Un rifugio in cui rintanarsi quando si vuole fuggire qualche minuto dalla realtà. E’ qui che il guaritore, protagonista dell’omonima pièce scritta da Michele Santeramo (Premio Riccione nel 2011) e portata in scena da Leo Muscato al Teatro Valle Occupato nei giorni scorsi dopo l’anteprima a Castel dei Mondi, scava nei recessi dell’animo altrui per lenire le ferite più amare, i dolori più intimi.

Questo vecchio dall’aria trasandata e stralunata (lo interpreta Michele Sinisi, egregiamente in sintonia con una caratterizzazione decisa ma quanto mai poetica e vera) vive seduto, attaccato ad una flebo con la stessa distratta veemenza con cui sta attaccato alla bottiglia, alla camicia sporca di una settimana,  o alle sue vecchie canzoni di Elvis Presley. Ogni tanto litiga con il fratello minore (Gianluca delle Fontane), colorando di farsa  anche i dialoghi più tragici, le recriminazioni più amare. Parla un dialetto pugliese volutamente “sporcato”, pieno di intercalari e di virate auliche: snobistici tentativi di sentirsi diverso, altro, un eletto ormai stanco di campare. Ma il guaritore, soprattutto, aspetta e riceve pazienti che cercano in lui un conforto, quasi fosse uno sciamano antico, un saggio acclarato, un daimon in contatto con gli dei (o con Dio). E lui li cura mettendo in relazione le loro storie, costringendoli ad un parlare/ascoltare votato giocoforza a provocare cambiamenti, scelte, traiettorie.

Dunque, a ben vedere, questo personaggio (ispirato tra l’altro a un vero contadino guaritore che “esercita” la sua attività in un piccolo centro della Puglia) è anche – e tanto più – una metafora del teatro: luogo diviso dal sociale in cui si raccontano storie e si innescano incontri capaci di agire nel cuore del pubblico. E come il teatro, il guaritore coagula in sé e attorno a sé tutto e il contrario di tutto: si ride, si piange, si aggrottano le ciglia in uno sforzo di comprensione, ci si lascia andare a situazioni surreali, parossistiche, buffe, stonate, stravaganti. Il testo del quarantenne pugliese – fondatore, insieme con lo stesso Sinisi, della compagnia Teatro Minimo di Terlizzi e autore di precedenti titoli quali, tra gli altri, “La rivincita”, “Le scarpe”, “Sequestro all’italiana” – mira a confondere le acque, i registri, gli stili. Il bozzetto farsesco dell’incipit, con quel botta e risposta “rissoso” che tanto evoca scenari da commedia dell’arte e passaggi dell’Eduardo più leggero, cede il passo poi a un andamento quasi beckettiano. O meglio, ad una grottesca galleria di personaggi che ricordano vagamente Copi, Ionesco, con però un afflato melodrammatico tutto italiano. Eccole le due donne disperate (le brave Paola Fresa e Simonetta Damato) che il guaritore è chiamato a curare: una moglie vibrante di nervosa impazienza e una single ribellatasi al suo stesso destino. La prima – abito bianco e fioco infantile in testa – si presenta dal bizzarro medico con il marito, un ex-pugile ormai fallito che vive solo nel suo sogno-show perfomativo tirando pugni a chiunque (salvo poi rivelarsi essere il deus ex-machina che risolverà il tragico epilogo del lavoro), ed è travolta dall’angoscia di non avere più tempo per fare figli. La seconda – tuta fasciante arancione e compostezza quasi orientale – non accetta di essere rimasta incinta e rifiuta la nuova vita che sta nascendo in lei.

Due storie dunque completamente agli antipodi. Eppure, sarà proprio costringendo l’una ad ascoltare la vicenda dell’altra e viceversa, che il vecchio guaritore indurrà queste due fragili creature a scegliere, decidere. Cosa non importa. Non è questo il punto perché qui in ballo c’è semplicemente la voglia/volontà di credere nel futuro, di fare tesoro delle esistenze degli altri, di riporre fiducia nelle relazioni umane, nello scambio di esperienze. Insomma, riporre fiducia nell’umanità. E la scena del rito, improbabile e sghemba, durante la quale avviene la miracolosa guarigione è quella che più di altre opera un cortocircuito significativo di tutte le linee tracciate nel testo: c’è l’enfasi del racconto e insieme lo sgambetto di una tromba foriera di risate; c’è la veridicità di un guaritore dedito al suo ultimo gesto d’altruismo e insieme continue interruzioni che abbassano i toni. Ne scaturisce l’idea di un puzzle scompaginato molto simile alla vita. C’è infine una lingua dialettale forte, decisa, musicale, variata. La consapevolezza, in definitiva, che solo rovistando nella saggezza popolare, nel senso di comunità, nel significato del linguaggio, nella forza micidiale degli incontri e delle relazioni, l’uomo del terzo millennio può ritrovare se stesso e arginare la solitudine di questo “mondo liquido – si legge nelle motivazioni della giuria del premio Riccione – dove per orizzontarsi non servono più le idee, né quelle vecchie né quelle nuove, ma dove gli esseri umani, con tutti i loro difetti, non smettono mai di aggrapparsi alla speranza che sia il confronto con un altro essere umano a salvarli”.

Marco Paolini, canzoniere teatrale per Jack London

marco paolini

MARIA PIA MONTEDURO | Colpisce in Marco Paolini la capacità di cambiare e nello stesso tempo di restare sempre se stesso. Ufficialmente l’ultimo spettacolo che porta in tournée Ballata di uomini e cani. Dedicato a Jack London (in questi giorni all’Argentina di Roma) non è più uno spettacolo autobiografico né di teatro civile. Ma fino a un certo punto. Jack London è un autore che ha influenzato molto l’infanzia di Paolini, per sua stessa ammissione. E non poteva che essere così per un autore assurdamente ritenuto scrittore appunto per l’infanzia e per un ragazzo nato nell’incantesimo delle Dolomiti. E questo per quanto riguarda l’autobiografismo ufficialmente non più presente. Per il teatro civile nemmeno si può dire che non sia una categoria teatrale impiegata dall’attore/regista veneto. Se infatti, solo apparentemente, lo spettacolo è un affettuoso omaggio allo scrittore statunitense, in realtà è un intelligente pretesto per raccontare e nel contempo analizzare il rapporto uomo/animale (e quindi uomo/natura) e realizzare un’analisi “alla Paolini” sul confine tra vagabondo ed emigrante, quanto mai attuale e drammaticamente presente nella quotidianità.

Paolini è innanzitutto uomo di teatro, animale da palcoscenico, grande incantatore di pubblico. E allora eccolo arrivare in scena con musicanti dal vivo: “La London, pardon, la Jack London Orchestra” formata da tre elementi che fanno a gara a chi è il più bravo (Lorenzo Monguzzi chitarra e voce, Angelo Baselli clarinetto, Gianluca Casadei fisarmonica) per accompagnare ed evidenziare i momenti salienti dei racconti che Paolini trae dalla vastissima produzione di Jack London, interpretando tre racconti che hanno un cane come protagonista. Un racconto buffo (Macchia), un racconto tragico (Bastardo), un racconto inquietante (Preparare un fuoco). Tre aspetti della vita del cane, e nel contempo dell’uomo, dove il confine tra le due esperienze esistenziali si sovrappone e si annulla l’uno nell’altro. La scenografia è scarna, sobria, essenziale: alcuni grandi bidoni, un soppalco e sullo sfondo, tramite una suggestiva video-animazione curata da Simone Massi, spesso scorrono immagini di cani nella neve, stile Zanna Bianca, per restare in tema londoniano.

Marco Paolini recita, narra, affabula, canta, scherza con il pubblico (non ammicca, scherza!) che incuriosisce, stimola, pungola, fa pensare. Non sa e non vuole rinunciare a far pensare il pubblico, porgendo, quasi inaspettato commento di commiato, proprio in chiusura, una ballata dedicata a Zaer, giovane afgano arrivato con mezzi di fortuna (sai che fortuna emigrare…) in Italia e poi morto in autostrada, come succede a tanti cani… Ma Zaer teneva un diario con alcune riflessioni intime: poesia pura. Di nuovo il teatro di narrazione e di affabulazione di Paolini si sposa con l’impegno civile, con la denuncia della situazione pesante che vive il migrante, che non è il carismatico vagabondo che fu lo stesso Jack London (ispiratore anche di Kerouac), ma un essere disperato che cerca una vita non si può nemmeno dire migliore, ma semplicemente umana. Per alcuni migranti, considerate tante situazioni dell’opulento mondo occidentale, che esagera in tutti i suoi comportamenti, basterebbe soltanto “una vita da cani”.

Per saperne di più

www.jolefilm.com

www.teatrodiroma.net

Eugenio Allegri si confida con PAC: io, Baricco, Novecento e il palco come una nave

allegri

VINCENZO SARDELLI | Che bella prova d’attore quella di Eugenio Allegri. Che con Novecento di Alessandro Baricco, regia di Gabriele Vacis, ha aperto la XVI rassegna Incontri al teatro Verdi di Corsico. E andrebbe ricordato che Novecento nasce nel 1994 proprio come pièce teatrale, scritta per Allegri. Solo alcuni mesi dopo la prima fortunata tournée, Baricco decise di farne un romanzo. Poi venne il film, La leggenda del pianista sull’oceano.

Un testo rappresentato su tutto il pianeta. Nei giorni scorsi era di scena a New York. La vicenda è quella di Novecento, un uomo nato all’inizio del secolo scorso su un transatlantico, e ritrovato da un marinaio sopra un pianoforte. Cresciuto tra le due guerre mondiali, Novecento trascorre l’intera vita a bordo del Virginian: non trova mai il coraggio di scendere. Impara a suonare il pianoforte, diventa una leggenda. Vive di musica e dei racconti dei passeggeri.

Bello rivedere Novecento nell’allucinata e grottesca versione originale. Con un Allegri proteiforme. Alla faccia della raucedine di stagione (ipse dixit, mica se n’era accorto nessuno) e degli anni che passano.

La patina del tempo c’è: quella dei vini pregiati. Una scenografia e le luci (di Lucio Diana e Roberto Tarasco) con un velo diafano che divide a metà nella lunghezza il palcoscenico, a creare una quinta parete: spazio reale verso il pubblico, “metafisico” sullo sfondo. Luci intimistiche. Un pianoforte mini pende dall’alto: ogni tanto oscilla, come una barca nel mare. I costumi (di Elena Gaudio) evocano i personaggi principali: lo stupito narratore e lo stesso Novecento.

500 repliche, 200 mila spettatori: un monologo cult della scena italiana. Gesti onirici, evocazioni fascinose. Recitazione buffa e intensa, falsetto e gorgheggi. Voce roca, frizzi e lazzi. Sillabe scandite, centellinate. Pause surreali. Passi di danza. Eugenio Allegri emoziona, riesce ancora a sospendere in un’attesa immaginifica. Con il pubblico inchiodato alla poltrona per due ore. Fino agli applausi, liberatorî.

Come Paolo Nani con La lettera. Come Antonio Rezza con Pitecus. Eugenio Allegri, anche lei fa lo stesso spettacolo da vent’anni. Non assomiglia un po’ a Novecento, che non ebbe mai il coraggio di abbandonare quella benedetta nave e scendere a terra?

Gli assomiglio. Non perché non abbia il coraggio di scendere, ma perché abbiamo la stessa visione del mondo. Come Novecento e altri personaggi di Baricco, so di dover affrontare il mondo pur non avendo tutte le “carte in regola”. Però non mi sottraggo alla sfida. Se Novecento al mondo infinito preferisce il microcosmo della nave, io la scaletta per scendere l’ho intrapresa più volte, con altri spettacoli. Lui una volta sola: pochi gradini, ed è tornato indietro.

Anche lei è tornato indietro. Più di una volta.

Sì, per ritrovare lo stesso punto di vista. E scoprire quant’ero cambiato.

E allora?

So confrontarmi di più con la realtà. Come attore riesco a misurarmi di più con il mio tempo. Provo a interpretarlo il meglio possibile.

La nave metafora del palcoscenico?

Sì. È un luogo protetto. Permette di avere le cose sotto controllo. Riesco dal palco a raccontare le mie storie davanti al pubblico. E quando parlo degli altri, racconto me stesso.

Novecento sul transatlantico coglie l’anima del mondo. Lei che cosa vede dal palco?

Vedo che le cose potrebbero andar meglio. Non mi piace che a molta gente venga sottratto il tempo per pensare, per vivere consapevolmente, per costruire la propria gioia. Questo mondo sta cancellando la dimensione dell’uomo. Viviamo nella velocità, siamo schiavi della tecnica. L’economia ci soffoca. Abbiamo smarrito il rapporto armonico con la natura. Il mio tempo ha ereditato le speranze della prima metà del XX secolo, fatte di progressi artistici e conquiste lavorative. Poi le ha smarrite, a causa dei totalitarismi, delle guerre, del capitalismo. È venuta meno la poesia.

Baricco delinea una costruzione umanistica dell’uomo. Lei riesce a recuperarla attraverso il teatro?

Ci provo, partendo da me stesso. Mi metto in discussione. Cerco di fare in modo che ogni spettacolo sia diverso dall’altro. Trovo il coraggio di abbandonare i percorsi sbagliati. Non è il risultato che conta, ma il percorso.

Paracelso diceva che «non si cammina solo per arrivare, ma anche per vivere mentre si cammina».

Per me il cammino è quello dell’attore che interagisce con il testo. Credo nel linguaggio e nell’identità dell’attore. Provengo dalla commedia dell’arte. Il testo e la regia si fanno attimo per attimo. Non solo durante le prove. Ma anche durante la rappresentazione, interagendo con il pubblico. Il passato cambia a seconda del futuro che affronti.

L’attore come strumento multiplo?

L’attore non è solo parola. Anche se la parola stessa è importante, e si trasforma continuamente sulle sue labbra. Non è solo sequenza logico-grammaticale. È evocazione, suono, forza espressiva, capacità di rivelare persone, emozioni, fantasie, luoghi.

Lei ha interpretato Novecento contemporaneamente ad Arnoldo Foà e Corrado d’Elia. Differenze?

Con Foà, che ricordo con affetto, abbiamo recitato addirittura insieme due volte, nel 2007 e nel 2010. Il mio timore reverenziale verso di lui durò appena due minuti. Ci apprezzavamo. Lui si congratulò con me, venne ad abbracciarmi. D’Elia l’ho visto in altri lavori, è molto bravo.

Novecento per produrre le sue magie jazz aveva bisogno di sentire l’oceano sotto il sedere. Lei di che cosa ha bisogno?

Della magia dello scambio con un pubblico attento ed educato come quello di Corsico. Della trasparenza delle sue sensazioni ed emozioni. Ho bisogno di stare nel mondo con tranquillità. Ho bisogno dei miei tempi per affondare i miei pensieri: affetti, musica, letture. Ascolto molto. E parlo il meno possibile.

 

Ranuncoli #6: 2 – IL CONTRO – e se siamo tristi è colpa di Dalidà

interno teatroCOSIMA PAGANINI | Difficile tirare fuori le parole. Provo a leggere i critici. Inutile, meglio fare come al solito e riallacciami ai ricordi della giovinezza di qualche zia.

Per chi viveva in provincia in uno di quei paesoni di 30 o 40mila abitanti le occasioni di vedere spettacoli dal vivo erano poche e per questo ci si abbonava alla stagione teatrale organizzata dal Comune e che si svolgeva in un teatro/cinema o in cinema/teatro. 6 o 7 spettacoli da novembre a marzo, se la pasqua era bassa, o ad aprile, se era alta.

Zia Erminia si acchittava e andava ad applaudire lo spettacolo con l’amica Ninì, sorella del sindaco. Il repertorio comprendeva classici “rivisitati”: Shakespeare, Cechov, Goldoni e (di nuovo) Shakespeare, e drammaturgia contemporanea “classicizzata”: Ibsen, De Filippo, Cechov (non era anche un classico?), O’Neil, Ionesco, Brecht, Pirandello e Williams. Sul palco si vedevano: Lojodice/Tieri, Pambieri/Tanzi, Gassman/Pagliai, Manuela Kustermann, Geppy Gleijeses, Gigi Angelillo e Ludovica Modugno e se il sindaco voleva proprio fare una bella figura metteva in stagione anche Albertazzi.

La scelta del repertorio era ristretta a una rosa di testi familiari di autori sui quali da almeno dieci anni non si discuteva più. Erano molto apprezzate scelte “coraggiose” di autori che ricordavano lo zio molto sensibile che va in giro col borsello e l’abito di seta (chi non ce l’ha?) I paesani si scandalizzavano per nulla, ma non di quello. Peggio era annoiarli. Di addormentarli poteva succedere e andava bene: di cosa avrebbero parlato, altrimenti, le mogli a cena dopo teatro? Lo sanno tutti che il teatro non è proprio una cosa da uomini del tipo vir.

Non erano ben viste regie spericolate, impegnate, sperimentali. Un palco spoglio con gli attori che restano sempre in scena, riflettori puntati sul pubblico e quattro gigantografie che pendono, bastavano a far partire i sussurrini – è l’avanguardia, il teatro di ricerca – e l’amica Ninì, se intravedeva un sorriso compiaciuto, diceva a zia Erminia: pensa che gli avevo proposto di nuovo Beckett al sindaco (mio fratello) ma lui dice che dopo quell’infelice giornifelici ha chiuso con questi giovani del terzo teatro. Inutile dire che avanguardia, terzo teatro e teatro di ricerca erano solo parole sentite dalla moglie del notaio e madre di una ragazza che era andata a studiare addirittura in Danimarca (come se il teatro ora si dovesse studiare) con un tipo italiano della bassa Italia!

Nel pubblico c’era anche, e sempre, la coppia di intellettuali (lui docente universitario, lei insegnante al liceo locale) che aveva studiato a Firenze e che si lamentava. Prima degli spettatori compaesani ignoranti e poi del fatto che quegli stessi spettacoli, che avevano già visto a Firenze o a Roma (dove andavano a incontrare gli onorevoli compagni) lì, al paese, erano spenti, peggiori. Poi lui si lamentava (poco all’epoca) della dizione non proprio perfetta, della recitazione sciatta e delle scenografie riadattate per quel palco striminzito e che faceva assomigliare quelle rappresentazioni a quelle delle compagnie amatoriali locali. Ma si sa, la provincia svilisce, davanti a questo pubblico di commendatori democristiani anche Gassman si farebbe più basso…

Il pubblico di commendatori e commendatrici democristiani, oggi pieno di figli che “studiano” teatro non solo in Danimarca ma addirittura in Russia e Giappone, avrebbe apprezzato Zoo di vetro (di e con Arturo Cirillo) e si sarebbe sentito molto moderno e all’avanguardia per essere in grado di capire e farsi piacere Cirillo. Non viene forse dalla danza? Non ha ricevuto premi UBI, Histro e Bistrò? Inoltre, questo Zoo di vetro può vantare la recitazione “dolente” di Monica Piseddu e quella “indolente” dello stesso Cirillo. L’interpretazione della madre di Milvia Marigliano è “intensa” e canonica, da manuale (“Figure e figurine di madri esemplari”, III dvd del corso di recitazione per tutti allegato alla rivista Teatro e Teatri). Edoardo Ribatto, intenso come il personaggio di Jeff Daniels nella Rosa Purpurea del Cairo, sembra essere pronto a sbarcare su una serie televisiva di prima serata, remake del tenente Sheridan, nel ruolo del protagonista. E non manca l’armadio delle meraviglie a ricordare la Cenerentola disneyana o qualsiasi altra favola dove l’armadio è la porta di un mondo altro (le cronache di Narnia di C. S. Lewis).

E i professori? Lui avrebbe detto: ma la dizione non la studia più nessuno? E perché uno dei personaggi ha quella forte cadenza napoletana? Hanno spostato l’azione ad Afragola e non lo hanno scritto nel programma di sala? Mi ha messo su due canzoni di Luigi Tenco per farmi piangere? E la professoressa: ma cosa ti importa della dizione e della cadenza paesana? È molto più grave che ancora si metta in scena un testo, invecchiato più di zia Erminia, solo perché il pubblico possa appigliarsi a qualcosa e non perdere il filo del racconto dopo un sonno di 5 o 15 minuti. Non tutte le cose sono destinate a invecchiare bene. E anche le cose invecchiate bene non stanno bene a tutti. Questo allestimento sembra un vestito degli anni cinquanta indossato da una donna che è stata giovane negli anni cinquanta. Un vestito vintage è un bel vestito vintage se lo indossa una bella ragazza giovane, altrimenti è solo un vestito vecchio e ridicolo. Tennessee Williams che era intelligente e mondano questa cosa ce la spiattella attraverso il personaggio di Amanda. E per chiudere: è triste vedere queste quattro persone che “recitano”, ognuno nella propria bolla e non riescono mai a essere sullo stesso palco, sullo stesso testo, nello stesso momento. È triste che non riescano mai a “essere”. (… e se mi vedi piangere è colpa di Tenco e Dalilà… o della menopausa).
Ma io lo so: a zia Erminia Zoo di vetro sarebbe piaciuto proprio così e per anni lo avrebbe ricordato come uno degli spettacoli più belli rappresentati al Cinema/Teatro Excelsior.

LETTURA DOPPIA: 1 – IL PRO – A che punto è lo zoo?

Lo-zoo-di-vetro-2ELENA SCOLARI | Tennessee Williams. Scrive in un’epoca di forte disincanto, in un’America che riflette su se stessa e sui propri modelli, e non ne esce niente bene. Confessiamo quindi che ci avviciniamo con qualche preoccupazione, sappiamo che non si tratta di un ottimista, che ha sofferto di depressione e che i suoi testi possono lasciare l’amaro in bocca.

Lo zoo di vetro è del 1945, ma ciò che vi è detto non è così legato a quegli anni, si osserva la condition humaine in un aspetto sempre attuale – la ricerca della felicità – che allontana la possibilità di risultare datato. Lo verifichiamo grazie alla messinscena di Arturo Cirillo e alla bellissima traduzione di Gerardo Guerrieri, mettiamo l’accento sul suo lavoro perché si tratta di un elemento determinante al successo dello spettacolo e alla dissipazione della nostra diffidenza: la traduzione non è solo buona tecnicamente ma è agile, credibile, ironica e intelligente, punto di forza che ci fa sentire i personaggi più vicini. Una famiglia con Amanda, una madre opprimente ma tanto sincera nella sua infantile fiducia, la figlia Laura, zoppa e timidissima, Tom, il figlio irrisolto e incazzoso, e il suo amico Jim, ritenuto per una sera pretendente della delicata Laura. Il padre se ne è andato anni fa, alcolista.

La vicenda è uno snodarsi di dialoghi quotidiani ma con alcune massime di portata aforistica (“Il futuro diventerà il presente, il presente passato e il passato un eterno rimpianto”), all’interno di casa Wingfield. Il nocciolo è trovare un fidanzato (e quindi un futuro marito) alla trasparente Laura, altrimenti condannata ad uno zitellaggio solitario, la madre suggerisce a Tom di invitare un amico a cena e in questa tragicomica serata vedremo ancora più chiaramente gli elementi del quadro:  la nostalgia ossessiva di Amanda per la sua gioventù nell’abito assurdo che indosserà, l’egoismo di Tom che sta cercando la sua personale via d’uscita, l’impacciataggine patologica di Laura, che sviene alla vista di Jim e l’insospettata sensibilità di quest’ultimo che capirà la diversità della giovane donna, la sua fragilità unica e irripetibile. Jim non potrà diventare il suo fidanzato, lo sappiamo, ma per la durata di quella conversazione in cui lei si apre come mai le abbiamo visto fare, e in quei pochi e accennati passi di danza che sembrano un miracolo, anche noi ci crediamo. Fino alla rottura dell’unicorno. Laura ha il suo rifugio: una collezione di minuscoli animali di vetro (lo zoo), fragilissimi come lei ma che le fanno compagnia, a loro modo la proteggono perché lei sola li sa maneggiare, il preferito è un unicorno che cadrà nel momento vitale del ballo con Jim. Cadrà e naturalmente si romperà, perderà il corno ma “così non si sentirà più diverso dagli altri cavalli dello zoo”, dirà Laura. Forse anche lei si sentirà meno unicorno perché ha capito qualcosa che non aveva mai vissuto prima. Ci ricorda Pinocchio che diventa un bambino come tutti, ma col passato di Pinocchio, perché anche Laura rimarrà diversa ma più consapevole che questo non sia un difetto.

Lo spettacolo è ben recitato da tutti, Milvia Marigliano tratteggia un carattere buffo e materno, Monica Piseddu è una fantasmatica Laura, Edoardo Ribatto un Jim un po’ Fonzie ma attento e lo stesso regista Cirillo è divertente nella sua affezionata ribellione alla madre, forse butta un po’ via la tirata finale, togliendo drammaticità ad una chiusa altrimenti perfetta.

La scenografia è modesta, mobilio modesto ed essenziale, niente quinte, alcune grandi (e inutili) foto in bianco e nero con le facce dei personaggi, un grammofono che diffonderà solo canzoni di Luigi Tenco (un po’ ruffiano ma adatto). Questa ambientazione dimessa, come se fosse lì lì per scomparire, ci ha fatto pensare al genere di malinconia che sottende alla letteratura di Fitzgerald: la sensazione continua che tutto si perda nell’attimo in cui accade, nel costante sbriciolarsi della realtà tra le dita, la giovinezza senza tempo perché quando c’è non te ne rendi conto e quando la rivorresti è passata per sempre.

La Cederna, il seme e la zolla di terra

ph Francesca Padovan
ph Francesca Padovan
ph Francesca Padovan

RENZO FRANCABANDERA | Esistono talenti difficili da replicare da parte delle macchine, perché nonostante tutto la natura, il suo complessissimo sistema, l’evoluzione millenaria delle forme biologiche e le loro proprietà sono un miracolo che l’artificialità impiegherà ancora tempo per emulare e raggiungere, nella sua semplice complessità.

Se Turing nel secolo scorso aveva inventato un test per scoprire se ci si trova o meno davanti ad una macchina, adesso pare che la sfida impossibile per le macchine sia la semplicità, ossia non il riuscire ad essere potente quanto un cervello umano, ma il riuscire ad evadere dai percorsi logici preconfezionati, ad internalizzare quello che è il pensare “out of the box”. Questo vuol dire che ciò che davvero ci distingue dalle macchine, e questo vale un po’ in tutte le cose della vita, e per l’arte in particolare, è il riuscire ad un certo punto a trovare una soluzione biologicamente innovativa, fuori dagli algoritmi già presenti, e che porti all’evoluzione della specie.

Così anche a teatro, i grandi testi sono sopravvissuti perché hanno mostrato capacità adattive a punti di vista, letture, interpreti diversi.

In queste sere al teatro Oscar a Milano abbiamo assistito ad alcune repliche di Nostra Italia del miracolo (prod TrentoSpettacoli/Arkadis), tratto da Il mio Novecento di Camilla Cederna, drammaturgia e regia Giulio Costa e affidato all’interpretazione di Maura Pettorruso, senza musiche, senza variazioni di luci: solo la parola della Cederna, ricavata da centinaia di articoli e tale da costituire un viaggio nella storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, e l’attrice a darle corpo. Lei, un cestino tagliacarte grazie al quale riduce in coriandoli fogli di giornale, uno sgabello, un tavolino e poco più.

L’ambizione di un lavoro così duro sull’interpretazione è un gioco d’azzardo, un esperimento biologico estremo. Che può segnare un modo forte di pensare alla narrazione, o scivolare nella sua declinazione meno avvincente.

Per fare tutto ci vuole un fiore. Anche a teatro. Un fiore che non nasce spontaneamente in natura, ma in laboratorio deve esser messo in condizione di resistere alle serate gelide, in cui il pubblico in sala reagisce freddamente al sarcasmo del testo (da rivedere, per dare un respiro più profondo e sinusoidale all’andamento emotivo dello stesso), o che non si apra troppo nelle serate calde, in cui il pubblico si sbrodola, per poi appassire in fretta; un fiore trova nella naturalezza la sua complessità, con un’idea di sé che è già nel bocciolo e la capacità di adattarsi al mondo che lo circonda, magari prendendo il colore di un fiore vicino. Questo lavoro forse ha un’idea di sé un po’ rigida che lo rende ora come ora poco adattabile.

In fondo il fiore è l’eiaculazione di una pianta. L’incontro fra un seme e un terreno in cui germogliare. Qui c’è un seme (il testo e il progetto registico che ne deriva), c’è un terreno (l’attore e il suo lavoro su se stesso). Allo stadio attuale il primo pare necessiti di più tempo per capire bene le caratteristiche del secondo (e viceversa, ove del caso). Giusto così, per evitare un’eiaculazione precoce. O un germoglio fuori stagione.

La pianta deve avere un tempo giusto per alimentarsi del terreno (e il terreno, specie quando zolloso, di dissodarsi per cedere chimica alla pianta) e dare il meglio di sé.

Arte e sradicamento: i percorsi della migrazione per Transiti

dio minato

GIULIA MURONI | Tra coloro che emigrano s’impone la volontà di ricordare. Ma il ricordo che affiora con più insistenza è quello delle proprie ferite, a partire dalle quali si trova definizione di sé e energia vitale per fare arte. Nello stesso tempo è necessario l’oblio, l’arte di dimenticare per rendere possibile il decentramento del proprio io, lo sradicarsi della propria esistenza.

Queste le suggestioni con cui Ornella D’agostino, associazione Carovana S.M.I., presenta il suo video “Dio minato” alla serata “Transiti. Voci di donne migranti”. Serata ricca al Piccolo Auditorium di Cagliari, nata dal progetto di ricerca curato da Emanuela Cara, la quale si è occupata delle migrazioni in Sardegna di donne provenienti dal Marocco, dall’Ucraina e dalla Romania in un’ottica transnazionale, accogliendo cioè il punto di vista delle migranti e dei loro affetti rimasti in patria. Uno studio etnografico in forma di videointervista ritrae in soggettiva i volti delle donne che si raccontano. Benché i loro corpi e il loro tempo siano prestati ad un lavoro di cura totalizzante, i pensieri ritornano alle famiglie lontane, a quelle radici spezzate, potate con dolore nella speranza che crescano più forti. Divise dalle vite di figli cresciuti dalle rimesse mensili, mariti che prendono altre strade,  genitori ammalati in solitudine, raccontano storie di ordinaria sofferenza, in cui l’intervistatrice scompare per lasciare spazio e voce a queste donne che producono la propria personale narrazione di sé, finalmente come soggetti.

La Sardegna, terra che ora accoglie queste ferite, è essa stessa segnata da cicatrici, solchi profondi come miniere. Alle voci delle migranti fa da contrappunto infatti la vicenda di Maria Pani, operaia cernitrice in miniera che, portata via dalle janas (fate del folklore sardo), divenne ossidiana, basalto, granito, steatite. La sua storia di sofferenza e perdite, scritta con tocco poetico da Bruno Tognolini, è letta da Gerardo Ferraro con l’accompagnamento della chitarra di Roberto Palmas. Tognolini stesso darà una lettura efficace, cadenzata dai ritmi della parlata cagliaritana, di una nenia in rime che, a partire dalla sua vita di sardo migrante negli anni ’70 verso il continente (“Portami via, portami via Tirrenia”), percorre la propria esistenza con levità (“Il continente è un’isola più grande, le risposte divennero domande, le domande fanno buona poesia, la miseria diventò filosofia”) , fino alla migrazione della “figlia continentale che cresceva, un bel giorno cambiò e divenne nuova, divenne rospa ch’era principessa e la sorte cambiò e fu la stessa”.

lamento mareCome a dire, e questo è il vero tema della serata, che in fondo siamo tutti migranti quando ci mettiamo alla ricerca di una vita migliore, perciò nessuno è clandestino o meglio “lo siamo tutti quando questa possibilità ci viene negata”.  Il nomadismo degli artisti conduce alla riscoperta di luoghi migrati e paesaggi interrotti, in trasformazione. Con “Dio minato” , videoproduzione di Carovana SMI, regia di Ornella D’Agostino, musiche di Luca Nulchis e immagini di Raul Anderson, si ritorna nelle miniere sarde attraverso i luoghi di Su Suergiu a Villasalto (Iglesias) e nei lineamenti della cernitrice Maria Concas. È lei a raccontare, in un misto di limba sarda e italiano, i ritmi serrati, la fatica di un lavoro disumano, l’atrocità della fame. E domanda ai suoi interlocutori:” Perché portate i bambini a sentire queste cose? Sono storie troppo tristi per loro.”

La signora esprime con poche parole una questione esistenziale e artistica fondamentale: quanto ricordare le proprie ferite? Quanto trasmetterle? Fino a che punto si estende la responsabilità di tramandare e quanta sofferenza deve essere dimenticata per crescere e fare crescere?

Forse una soluzione è quella suggerita dallo scrittore cagliaritano che, erede del genio di Gianni Rodari ( così definito da Concita De Gregorio) riesce a indossare le proprie ferite e gioie con la delicatezza e l’ironia necessarie per non farne un ostacolo. Per passare sulla terra leggeri.