GIAMBATTISTA MARCHETTO | Un lento, lungo, piano sequenza dell’ossessione per il gesto minuziosamente cesellato. È questa la sensazione più solida che lascia il lavoro di formazione che Jan Fabre – artista icona, controverso e fuori dal tempo, celebrato e condannato – costruisce sulla pelle dei performer che scelgono di immergersi nell’esperienza potente del Troubleyn.
La sua casa-teatro, la sua comunità nel cuore di Anversa – proprio nel quartiere in cui è cresciuto – diventa una fucina di proiezioni e riverberi della costruzione di un’opera. Al Troubleyn non si allestiscono spettacoli ma si fanno macerare idee e illusioni che hanno la delicatezza penetrante del bisturi, che stringono un cappio di verità dura e lacerante attorno al corpo del performer, inchiodato a una iconografia che va oltre ogni semantica per trasfigurarsi in rito.
Vibra un’atmosfera densa tra le mura squarciate, tra i piani inclinati di quel teatro sventrato dall’incendio del 1974 e ricostruito dalla “famiglia artistica” di Fabre come una galleria della sua vita fatta di ricerca artistica, costellata di amicizie lasciate come concrezioni inespugnabili sulle pareti, nel pavimento, tra muri e soffitti (da Marina Abramovic a Chantal Akerman, da Romeo Castellucci a Braco Dimitrijevic, da Mariam Najd e Javier Pérez a Fabien Verschaere e Robert Wilson).

Artista totale (esplicitamente ispirato al Rinascimento) e intelligenza complessa, Fabre porta le sue performer e i suoi performer in una foto di Helmut Newton o al Festival d’Avignon, ma è dal lavoro integralmente inciso sulla pelle che nasce il suo fare arte. Piaccia o no, la percezione di una netta amoralità e di una totale trasfigurazione della violenza dello sguardo è quello che emerge dalla scoperta del lavoro formativo che il regista-demiurgo sedimenta al Troubleyn.

È sufficiente sfogliare il volume “Dall’azione alla recitazione. Linee guida di Jan Fabre per il performer del XXI secolo” – uscito nella versione italiana per i tipi di Franco Angeli – per comprendere l’impatto del lavoro formativo/creativo di Fabre sul performer. “La magia del teatro consiste nel potere della trasformazione – si legge – Qualcosa si trasforma in qualcos’altro. Fabre investe in quel qualcosa, spetta al performer scavare qualcos’altro, esplorare i suoi strati ma anche la sua essenziale infondatezza e crogiolarvisi dentro. Quindi può rivelarne il processo e il risultato e presentarla al pubblico”.
Un approccio demiurgico, dunque, che si nutre di paradossi. “Questo è l’ultimo paradosso – proclama il regista – ci vuole molto controllo per permettere la perdita del controllo. Il controllo è continuamente tenuto a un guinzaglio invisibile”.
Cui prodest? – viene da chiedersi. Con lessico violento, Fabre chiede ai suoi e alle sue interpreti un approccio medianico, con ispirazione quasi fideistica. “Il guerriero della bellezza è quindi un essere intermedio – dichiara – una creatura transitoria tra la vita e la morte. Conosce la liminalità della sua esistenza: è stato ai limiti della vita e ha oltrepassato i confini, può essere testimone di ciò che si trova oltre i margini della vita. Conosce il mistero profondo della morte che sgorga dalla vita e della morte che partorisce la vita”.

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I docenti Ivana Jozic e Pietro Quadrino al Toubleyn (ph Sophie Lukersmith)

Dolore orgasmico
Non è assolutamente un percorso per anime fragili quello che propone ad attori, danzatori, registi, autori che scelgono di immergersi tra le pieghe di un pensiero astratto e carnale, surreale e orgiastico, grottesco e angelicato – come il volto della fanciulla che è chiamata all’estasi mentre offre il collo al proprio carnefice.
Chi entra in questo mondo è chiamato a conoscere il dolore. “I performer usano questa fatica reale come input per la loro recitazione, letteralmente dall’azione alla recitazione – rimarca Fabre nel descrivere uno degli esercizi della sua pratica – Il dolore reale, i crampi dei muscoli e lo sfinimento generale provocano una reazione fisiologica nel corpo e portano fino all’irritazione e all’attrito”.
Potrebbe sembrare una iperbole astratta, ma una dimostrazione della disponibilità assoluta che il maestro chiede all’allievo nei suoi percorsi di formazione al Troubleyn viene dall’esercizio dedicato al volo. “Saltare e volare, questo è l’esercizio – spiega – Ancora e ancora. Ogni caduta ti fa credere che riuscirai nel prossimo tentativo. Il sogno di volare è infinitamente più grande del dolore della caduta”. E questo diventa fisico, carnale, come il peso del corpo che si schianta. “Il trucco del volo non sta nella rincorsa – gli uccelli non hanno bisogno di una rincorsa – sta nel potere mentale di credere in qualcosa, sta nella propria immaginazione, che può salire in alto sopra tutti e tutto. Il fatto di continuare a cadere in realtà solo un dettaglio, è un effetto collaterale di ciò che si vuole ottenere”, aggiunge Fabre.
Il dolore, la tensione si mescolano al piacere in una sintesi parossistica. Un esempio? L’esercizio intitolato Olimpiade orgiastica. Ecco come lo introduce Fabre: “Olimpiade orgiastica è una disciplina ideata per il guerriero della bellezza. La competizione è incentrata sul numero di piccoli orgasmi che un atleta può raggiungere, incoraggiato e allenato da suo personal trainer. L’improvvisazione si ispira alla performance Orgy of Tolerance in cui il modello di consumo eccessivo della nostra società occidentale è centrale, anche nel campo della sessualità”.

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Allievi al Troubleyn di Jan Fabre (ph Sophie Lukersmith)

Dedizione totale
È un impatto crudo e forte? Assolutamente sì. È troppo? Forse. Ma la soglia di resistenza alla pressione formativa e informativa di un maestro si tara individualmente.
Quanto a Fabre, non mimetizza e non mistifica, anzi dichiara a lettere di fuoco la necessità di una dedizione totale.
Non per nulla utilizza un celebre estratto da Georges Bataille per esprimere lo scarto viscerale del proprio fare arte partendo da una volontà di potenza che non rinuncia al dolore sacrificale. “Attraverso la violenza del superamento, io colgo, nel disordine delle mie risate e dei miei singhiozzi, nell’eccesso dei trasporti che mi spettano, la similitudine tra loro e una volontà che mi eccede, tra il dolore finale e una gioia insostenibile”.


Jan Fabre, Luk Van den Dries
DALL’AZIONE ALLA RECITAZIONE
Linee guida di Jan Fabre per il performer del XXI secolo
Introduzione di Richard Shechner
Presentazione all’edizione italiana di Anna Bandettini
Postfazione di Mikhail Baryshnikov
pp. 320