RENZO FRANCABANDERA | Nel tempo, al crescere della consapevolezza del linguaggio artistico, il frequentatore di mostre, il conoscitore dell’arte diventa sempre meno appassionato alla fruizione individuale farcita della sindrome di Sandhal di fronte al grande capolavoro, e sempre più interessato a conoscere i percorsi, la formazione, il momento della crescita.
E’ per questo che negli anni abbiamo cercato di segnalare in modo più attento le mostre che aiutavano non solo a capire i fulgori, ma anche lo sviluppo dei linguaggi. Il perchè di questa scelta risiede nel fatto che episodi della storia dell’arte e le vite di artisti come Picasso, Dalì, Schiele, Lautrec, talenti precocissimi, sono in genere una rarità, mentre la maggior parte dei percorsi creativi si sviluppa con la consapevolezza, la maturità, la fatica e la tenacia, come in tutte le cose umane.
E’ per questo che fa sempre quasi tenerezza osservare i primi lavori di un Van Gogh incerto e incapace, alla soglia dei trentacinque anni, di disegnare i volumi e le forme in movimento, o le opere che compongono la prima sezione del percorso della mostra di Palazzo Reale di Milano su Cezanne, con i quadri (quasi venti dei cinquanta) del periodo anagrafico fra i venti e i trentacinque-quarant’anni.
Opere che non possono essere definite minori, ma di formazione, opere che fanno parte di quel complesso di codici di passaggio che portano poi alla definizione dello stile personale, della tavolozza soggettiva, del timbro e del segno del pittore.
Al di là del celeberrimo autoritratto realizzato intorno ai quarant’anni che accoglie il visitatore e che raccoglie, superandole, le lezioni dei maestri Delacroix e Ingres e le suggestioni impressionistiche, i “capolavori” esposti in questa mostra sono nelle ultime stanze, quelle della maturità, dove appaiono i boschi, le inestricabili foreste, veri e propri muri di colore dove l’ostacolo diventava siepe leopardiana oltre la quale immaginare l’infinito.
Lì, nella natura selvaggia delle montagne di Provenza intorno ad Aix, alle pendici del monte Sainte Victoire, tante volte immortalato in ogni condizione di luce, Cezanne passava giorni a dipingere in solitudine, isolato eppure mai ignaro dei fermenti parigini, dove l’agio familiare lo conduceva con una certa frequenza e assiduità di confronto. Ecco perchè, all’arrivare del suo successo in età assai matura, intorno ai sessant’anni, fu chiaro a tutti, quando ormai il nuovo secolo, il Novecento, si approssimava, che il pittore Cezanne si proponeva come unico vero, grandissimo e luminoso anello di congiunzione e ponte verso il nuovo che protentemente bussava alle porte.
Gli ultimi disegni, i trasparenti acquerelli su carta come il mulino sul fiume della penultima stanza, sono chiare anticipazioni degli studi sul movimento del futurismo, e le nature delle ultime due stanze, tanto nelle loro quasi finte luminosità quanto nelle opacità terrene, anticipazioni delle suggestioni su colore e volumi del cubismo di Picasso e Braque. Eppure commuove, in queste ultime stanze, trovare un maestro che ancora si esercita, che copia drappeggi e tende o nature morte con afflato verista e con il tentativo di riuscire a definire il reale con la trasparenza, quasi con la materia del supporto, come il pittore di Oceano mare di Baricco, che tracciava sulla tela infinitezze con la sola acqua di mare.
E’ lì la lezione vera di un Cezanne che dice a sè e a chi lo osserva che non si smette mai davvero di imparare e che per diventare grandi è importante non dismettere mai i panni dell’umiltà. E’ per questo che la mostra va vista da chi davvero è appassionato di profondo sentimento artistico e poetico. Perchè traspare l’umanità di un uomo che, lontano dai clamori, ha creduto più di tutto in quello che aveva dentro, e che, come dichiarò ormai anziano, volle morire dipingendo.
Un video sulla mostra
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