laflute535BRUNA MONACO | Grandissimo regista, fondatore del Théâtre des Bouffes du Nord, a 86 anni Peter Brook realizza il suo sogno e nasce “Un flauto magico”, versione molto rivista della celeberrima opera di Mozart. È il Teatro Argentina ad ospitarlo fino al 27 novembre, all’interno del Romaeuropa Festival.

Che Peter Brook abbia scelto di anteporre un modesto indeterminativo davanti al suo flauto magico, è singolare, toccante. Grandioso. È “Un flauto magico” e non “Il flauto magico” il titolo dell’ultimo spettacolo di Peter Brook. Un enorme gesto di umiltà, amplificato perché è un artista enorme più del suo gesto, a compierlo.

“Un flauto magico” si presenta al pubblico come una possibilità, non l’unica, non la migliore, non l’indiscussa e indiscutibile messa in scena teatrale dell’opera di Mozart. Dopo aver scritto un importante capitolo della storia del teatro di tutti i tempi, l’ottuagenario regista, inglese di origine e francese di adozione, dice addio al teatro un po’ come Socrate disse addio alla vita: la ricerca di Brook non si è mai fermata. Fino alla fine, la spinta alla sperimentazione e alla ricerca hanno vinto sull’autocompiacimento e su ogni desiderio di celebrazione, di dimostrazione. D’altronde nulla da dimostrare: la carriera di Peter Brook parla da sola. E parlerà a lungo.

La celeberrima opera di Mozart è modificata nella trama, nei personaggi, nei recitativi e nella partitura musicale: solo un pianoforte sul palcoscenico a compensare l’assenza di flauti, oboi, fagotti, clarinetti, trombe, tromboni, timpani, archi… l’arduo compito di adattare le musiche, Brook lo ha affidato a Frank Krawczyck, anche esecutore in scena. Dall’abbondanza all’essenza, e naturalmente non è solo la forma a essere modificata: se ne “Il flauto magico” la musica era protagonista, in “Un flauto magico” diventa accompagnamento. E quella di ridefinire il ruolo della musica in un’opera, soprattutto se parliamo di un’opera di Mozart e se ridefinire significa ridimensionare, è una scelta aggressiva. Brook prende dei rischi: per teatralizzare “Il flauto magico” pone l’accento sulla trama, e in questa opera/non opera brookina (frutto della collaborazione con Marie-Hélène Estienne, come sempre da anni, oramai), il libretto di Emanuel Schikaneder diventa più pesante delle musiche di Wolfang Amadeus Mozart.

Opera/non opera su tutti piani, infatti, sono ridotti all’essenziale, tanto il tessuto musicale, quanto i costumi e le scenografie, i marchi distintivi dell’opera stessa. Abiti semplici coprono i corpi di cantanti e attori. Qualche canna di bambù mobile e multifunzionale si trasforma, di volta in volta, in bosco, stanza/prigione, sotterranei. Opera/non opera, ma anche teatro/non teatro: “Un flauto magico” riesce a collocarsi nel centro esatto della dialettica tra teatro e opera. L’integrazione non è raggiunta, ma forse, in fondo, nemmeno ambita. Oppure, purtroppo e semplicemente, anche per un mostro sacro come Brook valgono le leggi del mercato e il tempo delle prove non è bastato a trasformare dei giovani cantanti d’opera freschi di conservatorio in cantanti/attori degni di peter Brook.

William Nadylam (che fu Amleto ne “La Tragédie d’Hamlet” di Brook del 2002) e Abdou Ouologuem sono bravissimi. Attori 100%. La loro presenza scenica è assorbente, i loro movimenti sempre giusti in direzione e intensità. Brook ha inventato per loro un ruolo che né Schikaneder, né Mozart avevano previsto: spiriti o aiutanti di scena, sono loro che si fanno più di tutto garanti della teatralità dello spettacolo. Perché poi gli altri, i cantanti, cioè i personaggi, a cui è affidato il compito di sorreggere la storia con i loro canti e recitativi, la presenza scenica di Nadylam e Ouologuem non possono eguagliarla.

Applausi scroscianti comunque, alla fine di ogni replica. Applausi di commiato, per salutare e ringraziare un grande, immenso maestro.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=U0LxjMHfnF8&w=560&h=315]