RENZO FRANCABANDERA | Scriviamo in questo articolo di due spettacoli, “Il giardino dei ciliegi” con la regia di Magelli, coproduzione Metastasio di Prato e Stabile di Sardegna, e della riproposizione al piccolo e vivace Teatro Alkestis de “Il Teatro dei fratelli Scomparso”, di Andrea Meloni.

“Il giardino dei ciliegi” di Magelli è una coproduzione Metastasio/Stabile di Sardegna che vede coinvolto un importante numero di attori, tecnici e personale, quello che si potrebbe a giusta ragione chiamare un grande allestimento, se non fosse per la povertà assoluta della scenografia, che nasce per sottrazione, sventrando il palcoscenico di ogni struttura per mostrare le nude pareti del teatro. E’ in questa spoliazione che si ambienta il dramma della distratta decadenza, di quel sentimento di fine impero, con feste e bagordi, proprio mentre il Titanic affonda.
E’ questa la metafora di tutto il primo e dell’inizio del secondo atto del capolavoro cecoviano, che Magelli rilegge al gusto della Mitteleuropa. Gli attori infatti sono per tutto il primo atto impegnati in una corsa frenetica, alla snervante ricerca di qualcosa che ovviamente non trovano, perché è tipico delle caste consolidate non capire il cambiamento, la frana che sta per travolgerle. Entrano ed escono dal luogo teatro, attraverso le porte di accesso diretto al palcoscenico, di solito riservate alle maestranze.
Il sapore della Mitteleuropa che Magelli porta in eredità dai suoi trascorsi alla scuola della Bausch e di altri grandi nomi della grande regia continentale si assapora nella nessuna o scarsissima indulgenza sui costumi, nel ritorno di fiamma per la biomeccanica e dalle nuances espressioniste che marcano i personaggi, caratterizzati quasi come prototipi di questo o quel difetto, come nella commedia dell’arte.

E che in fondo il giardino sia scheggia neanche troppo omeopatica della Commedia della vita e i suoi personaggi, riflesso di opaca luminescenza dell’eterno gioco del contrasto fra classi di privilegio e classi di lavoro, dell’ottundente crapula senza misura contrapposta al trionfo dell’ignorante e insensibile ascesa della classe media, è un fatto che non sfugge alla regia, che affida proprio allo spasmo del movimento corporeo il compito di trasmettere questo disagio.
Qualcosa però non si irradia nella giusta direzione, e qualche scelta appare macchinosa e artefatta. Facciamo un esempio per tutti: al termine del primo atto, una prima frazione di spettacolo marcata, diremmo marchiata, dal vorticoso movimento dei protagonisti, a tratti in onestà quasi inspiegabile, gli stessi si ritrovano a comporre una sorta coreografia a forma di stella a dieci, dodici punte, un cerchio di cui gli attori sono limite della circonferenza, seduti in terra a guardarsi e ad escludersi dalle rispettive forze di comunicazione. Il fatto è che questa così accurata composizione è totalmente estranea alla logica di movimento che fino a quel momento si è avuta in scena, tanto che alcuni attori devono andare a comporre questa coreografia lasciando la posizione fino a quel momento occupata in scena, il che è ovvia riprova dell’innaturalezza di quel movimento, che diventa più omaggio ad una ricerca a sè stante che un gesto necessario, figlio e concatenazione vivente rispetto a quanto fino a quel momento visto. Questa medesima sensazione ricorre a più riprese nella fruizione della pièce, a sostanziare ulteriormente l’idea di uno sforzo intenso ma freddo, quasi preordinato e incapace di spogliarsi dei petali superflui, fiore che soffoca della sua esuberante inflorescenza, senza arrivare a godere di quella temperatura emotiva necessaria al massimo sviluppo. E’ questo che invece che far lievitare, sgonfia per buona parte lo spettacolo e l’idea del giardino di Magelli, che invece in alcuni tratti è capace di tenere alta l’attenzione e la tensione. Le scelte registiche forzano le interpretazioni di attori di consolidata esperienza a vestire maschere tanto grottesche da finire per essere irreali e distanti, accorciando il fiato di uno spettacolo che, se invece trovasse la giusta misura e sfrondasse i suoi barocchismi apriori, potrebbe dire qualcosa di utile e di nuovo.
Un bambino di nove anni che mi era seduto di fianco ha riservato grande attenzione all’allestimento per tutta la sua durata, a testimonianza che qualcosa di ingenuo e primitivo che lega tutto (oltre al testo, ovviamente) nello spettacolo c’è, ma che, come spesso accade, la sovrastruttura prova a dire con così tanta addizione di particolari, da far perdere lo stesso gusto animale agli spettatori adulti. Il bambino ha confessato poi di essere stato fulminato dall’interpretazione di Mauro Malinverno, tanto che ad inizio del secondo atto, mentre ha luogo il ballo concomitante con l’asta per la vendita del giardino, mi ha guardato preoccupato chiedendomi dove fosse finito Leonida. Ed è la stessa cosa che, per tutt’altre ragioni, che abbiamo cercato di spiegare, ci siamo chiesti anche noi.

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Presso il Teatro Alkestis di Cagliari, struttura con una tradizione di scuola e presenza sul territorio, è terminata in questi giorni una mini rassegna che ha tenuto banco per tutto il mese di Dicembre.
A chiudere la parte del 2011 della stagione teatrale di questo piccolo e grazioso teatro, il ritorno di Andrea Meloni su un testo da lui scritto e interpretato, “Il teatro dei fratelli Scomparso”, riproposto in una versione composita e rinnovata, radicalmente diversa da quella che era girata alcuni anni fa. Meloni, attivo nella pratica del teatro presso strutture di ricovero per persone con disagio psichico aveva maturato nel 2006 un testo assai pregnante e poetico che aveva portato in scena in una prima versione, con il supporto dell’Associazione Circo Calumet.

Il rapporto fra lo spettacolo fruito in questi giorni e quello originario è necessario per spiegare le scelte operate dalla regia nella revisione dello spettacolo. Il primo era una pièce che, pur con le ovvie mitigazioni necessarie per la generalità del termine, era ascrivibile al genere della narrazione. L’attore rendeva il pubblico edotto circa la vicenda di Alfredo Scomparso e della sua prossimità di disagiati, vicenda che finisce nel ventre di una balena che diventa antro della pazzia, anfratto di un’umanità dal tratto instabile e sperduto. Il tentativo era quello di un progressivo coinvolgimento degli spettatori in questo numero di sperduti, tanto che nella vecchia versione gli stessi a fine replica venivano invitati ad un banchetto povero, nel palcoscenico-ventre della balena. Ad aprire e chiudere quella recita era, con il suo megafono, Simone Dulcis, artista polivalente, attento tanto alle arti figurative quanto a quelle musicali, che era incaricato di piccoli ed essenziali puntelli ad un testo evocativo, poetico, portato in scena con plastica vivacità dal suo autore.

Alcuni anni dopo la compagnia ha avvertito la necessità di riproporre il lavoro, concentrando la ricerca sulla deframmentazione del testo, sull’incapacità del nostro tempo di proporre messaggi unitari, aggreganti. L’intento è quello di mettere a nudo un disagio ricreato tramite una polisemica che si irradia su tutte le forme del teatrale, da quella fisica, a quella vocale, fino a quella musicale. Il sapore di fondo è quello di una ballata brechtiana: non mancano le fisarmoniche e alcune interpretazioni di marcato sapore espressionista, in particolare quelle delle due interpreti femminili che si sono aggiunte al duo storico.

Il cuore della questione è che la nuova proposta, centrata sulla deframmentazione, quasi performativa in un certo senso, della testualità originaria fa perdere quasi del tutto la poesia del bel testo, che si respira solo a tratti qui e lì, a scapito di inserti ora musicali, ora di movimento, ora vocali, spesso inutilmente lunghi e non di rado incoerenti con una grammatica scenica che a fine spettacolo resta per lo più indefinita. Le fisarmoniche si alternano a sequenze elettroniche, le piccole e a suo tempo icastiche acrobazie del protagonista a mimare il beccheggiare di una vita in balia dei marosi, diventano esplorazione di un ambiente ostile che comunica sì inquietudine, ma per il suo non chiudere il cerchio. Molte tracce restano quindi irrisolte e il percorso rimane in forma troppo aperta.

Se dunque alcune fratture nella composizione scenica sono giustificabili proprio per rendere l’idea della follia che incombe sull’umanità, altre restano più solipsisitiche e autoreferenziali, in un agglomerato di arti forse più intento a parlare a se stesso. I motivi di questa implosione sono forse nella reale impossibilità del testo originario di dar corpo ad una polifonia senza che lo stesso perda la sua forza evocativa, o forse semplicemente nell’aver voluto mettere insieme troppo, aggiungendo presenze sceniche che agiscono loro malgrado da forza centrifuga invece che centripeta, rispetto al focus artistico dello spettacolo. Più d’uno spettatore che aveva fruito la prima e ora la seconda versione delle vicende di Alfredo Scomparso, non riuscivano a spiegare questo nuovo esito penalizzato “causa sui”. Insomma Alfredo in questa versione pare veramente scomparso, e lo spettatore se ne chiede a giusta ragione i motivi.