giacometti e  gli etruschiMARIA CRISTINA SERRA | Sono molte le proposte in questo rigoroso e austero inverno e ci invitano ad attraversare i quartieri da una riva all’altra della Senna, seguendo il filo dei nostri vissuti, per tracciare un itinerario artistico a seconda delle suggestioni del momento. A Place de la Madeleine, salotto buono dei buongustai con le ricche boutique-gourmet, addobbate a festa, il magnetismo del manifesto “Alberto Giacometti e gli Etruschi” c’invita ad entrare nella Pinacothèque de Paris, dove fino al 15 gennaio si potranno ammirare le ascetiche sculture del maestro del Novecento, che idealmente si confronta con un’arte e con un popolo depositario di segreti ancora da scoprire. Una sapiente illuminazione evidenzia l’empatia fra i reperti archeologici, provenienti dal Museo Guarnacci di Volterra e le opere dello scultore che riuscì a plasmare con la materia i temi della filosofia esistenzialista. Appropriati pannelli esplicativi spiegano al pubblico tutta la complessità estetica e culturale di una mostra, che si propone con grande ambizione di tracciare una linea formale e filosofica fra due mondi disgiunti fra loro da 2.500 anni. “L’ombra della sera”, la splendida statuetta longilinea del III° secolo a. C. si confronta con la “Grande femme” del 1960 dai contorni frantumati. “L’homme qui marche” esplora con i suoi lunghi passi l’infinitezza dello spazio. Le terrecotte etrusche, finemente decorate, si confrontano con gli ascetici “Trois hommes” filiformi. E’ un continuo alternarsi di figure e forme, dai significati misteriosi che fissano un insolito punto di incontro fra mitologia e surrealismo, arte primitiva e avanguardia, tanto da far osservare a Marc Rastellini, direttore della Pinacothèque, che forse Giacometti stesso “è stato l’ultimo degli Etruschi”.

Ma a Natale si diventa tutti un po’ bambini, almeno per qualche ora, per evadere e cercare riparo dai propri affanni, tuffandosi nel mondo dei giocattoli. “Des jouets et des Hommes” è una insolita mostra sull’importanza dei giochi “prima iniziazione all’arte”, come diceva Baudelaire, o addirittura “la forma più elevata della ricerca”, come osservava Einstein. Nelle sale del Grand Palais, fino all’11 Gennaio, un migliaio di giocattoli, dall’antichità ai nostri giorni, accompagnati dalle geniali installazioni dell’artista Pierrick Sorin, ci illustrano attraverso più sezioni tematiche l’importanza degli oggetti che mettono in relazione i bambini con le loro emozioni e con l’universo degli adulti. “Simboli evocativi che ci permettono di incrociare una moltitudine di campi del Sapere: storia, antropologia, psicologia, sociologia, economia”, spiega Bruno Girveau, commissario dell’esposizione insieme a Dorothée Charles, che sottolinea come proprio attraverso i giocattoli si evidenzi che “i modelli e gli stereotipi femminili e maschili, ancora oggi, stabiliscono ruoli separati e vincolanti per i bambini”, difficili da sovvertire.

Bambole di pezza, di porcellana, di celluloide, o longilinee Barbie “vintage” degli anni Sessanta, raccontano l’evolversi dei costumi nell’immaginario infantile. Gli esemplari di “bambole meccaniche” di fabbricazione tedesca, inglese e francese dei primi del Novecento dimostrano una tecnologia d’avanguardia. La “poupée chantante” del 1893 per la Maison Jumeau è un gioiellino d’inventiva. I pelouche hanno un grande potere consolatorio, e l’orso tedesco “Steiff” del 1907 vendette in quell’anno un milione di esemplari. E’ ricchissima la sezione dedicata agli animali, così come quella dei soldatini di piombo e di plastica, di trenini, automobiline, battelli e carrozze, che segnano e delineano epoche e modi di vivere. L’aeroplano meccanico di Babbo Natale con i doni, esposto nel 1925 nelle vetrine del Bazar de l’Hotel de Ville (il grande magazzino BHV, ancora oggi il più frequentato dai parigini, con il suo incomparabile reparto di Bricolage), stupisce ancora per sue animazioni, un inno all’incanto per bambini e adulti.

La grande fotografa Giséle Freund è visibile fino al 29 Gennaio alla Fondazione Yves St. Laurent. L’artista tedesca, di origine ebraica (emigrante a Parigi durante le persecuzioni razziali) è in scena con “L’oeil frontière – Paris 19933/1940”, un percorso affascinante nella storia letteraria ed artistica del Novecento e del fotogiornalismo d’autore. “La fotografia è un linguaggio universale, comprensibile a tutti, mi ha permesso di esprimermi”, scriveva ne “Il Mondo è il mio obiettivo”, mentre traduceva per noi con la sua Leica lo spirito più intimo ed autentico dei personaggi. Il suo occhio sensibile coglie la fragilità impenetrabile di Virginia Woolf, fuggiasca dai demoni che l’assillano, ma anche “illuminata da una luce interiore, sincera, visionaria”. Così come la penna di Virginia Woolf era riuscita a registrare la fluidità del tempo in un perenne presente, cogliendo le dinamiche dell’anima e i flussi di coscienza delle sue figure attraverso folgorazioni fugaci, in grado di penetrare “in un cuore di tenebre cuneiformi, invisibili agli altri”, per ritrovare l’essenza della realtà. Il flusso della Storia, attraversata in una sintesi unitaria di esistenza privata e avventura collettiva, traspare dal viso severo, disteso, di solida “ragazza per bene” di Simone de Beauvoir. Immagini a colori netti, forti come il suo pensiero, coerente, lucido, esente da smarrimenti, radicato nelle contraddizioni concrete della vita. J. P. Sartre è il filosofo ”engagé”, “condannato ad essere libero”, impegnato nella realizzazione di una solidarietà di classe, qui circondato dagli oggetti del suo quotidiano: i libri e la pipa. E’ di sfida l’atteggiamento di A. Malraux, ripreso nel 1935 sul terrazzo della sua abitazione. “C’era vento, lui si tirava indietro i capelli con mano nervosa”, racconta la Freund, “senza accorgersi che avevo scattato più volte, mentre parlava”. Colette, autrice di successo, ha i gesti studiati “di attrice nata, non le importava essere bella in fotografia, amava l’obiettivo e ne capiva le esigenze”. Aristocratico, distaccato, formale, immerso nella realtà della sua giornata, lo scrittore irlandese J. Joyce. Racchiuso nell’atmosfera surrealista della sua casa, J. Cocteau, le dita sottili, nodose, da teatrante, che stringono la sigaretta. A. Gide è pensieroso: alle sue spalle, appesa alla boiserie, la maschera di Leopardi.

E’ come lo immaginiamo, chino fra i suoi libri, i suoi manoscritti, concentrato a ricomporre i mille frammenti illuminanti della sua mente, il filosofo e critico tedesco W. Benjamin.

“La fotografia deve leggere un viso come si legge la pagina di un libro, essere capace di decifrare anche quello che è scritto fra le righe”, è l’imperativo della Freund, “non si chiede ad un fotografo di creare le forme, ma di riprenderle, come un buon traduttore, che a sua volta deve essere capace di scrivere”.

Intervista a Dorothée Charles curatrice della mostra al Grand Palais
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Un video di BFM TV sulla mostra
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