ELENA SCOLARI |   Al CRT Salone di Milano, fino al 6 maggio 2012 il monologo di Dostoevskij nella versione di Marco Sgrosso, in collaborazione con Le belle bandiere.

In questa stagione teatrale, Dostoevskij è stato autore molto frequentato: abbiamo visto l’Idiota di Nekrosius, I fratelli Karamazov di Cesar Brie, e ora Le memorie del sottosuolo diretto e interpretato da Marco Sgrosso. Questi tre esempi ci danno modo di fare una riflessione sul rapporto tra letteratura e teatro.

I testi di Dostoevskij, romanzi o racconti, non nascono per essere messi in scena, esercitano però un fascino irresisitibile verso chi fa teatro per la complessità, l’unicità dei personaggi che li popolano. Affrontare i capolavori dell’autore russo è senz’altro rischioso, proprio per la difficoltà di rendere sul palco le profonde e acutissime riflessioni che gli uomini e le donne condividono con noi dalle pagine. Trarne uno spettacolo richiede quindi una buona dose di sapienza teatrale. Se l’Idiota e i Karamazov sono due romanzi gigante, con tanti personaggi e uno sviluppo esteso, Le memorie del sottosuolo sono invece quasi un racconto lungo, una sorta di diario introspettivo il cui autore ne è l’unico protagonista, incontra sì altre figure ma è sempre tramite i suoi occhi che il lettore li conosce.

Il testo originale è diviso in due parti: una in cui il narratore è solo e ci mette a parte delle sue strampalate e dolorose considerazioni su se stesso e sul mondo, sul suo mondo buio, e un’altra in cui esce dalla tana e continua il processo autodistruttivo proiettandolo su altri, su un gruppo di amici che lo snobbano crudelmente e in particolar modo su Liza, giovanissima prostituta con la quale intrattiene un rapporto, non proprio sereno.

Marco Sgrosso sceglie di concentrarsi sulla prima parte e sull’incontro con la donna, trascurando completamente la compagine degli altri uomini presenti nel racconto. E’ una scelta dovuta, immginiamo, in parte alla difficoltà oggettiva di rendere in teatro, da solo, avvenimenti che coinvolgono più persone ma soprattutto alla volontà di privilegiare la solitudine del protagonista e la sua volontà di annientamento, di sé e dell’unica persona che sembrava avergli mostrato tenerezza, o meglio deferenza.

Sgrosso passa gran parte dello spettacolo recitando da un lettuccio, misero, in un antro buio, il sottosuolo, appunto, accompagnato da un continuo squittio di topi. Dietro un telo di garza intravediamo un secondo attore, una specie di coscienza, che a volte raddoppia alcune delle riflessioni che ascoltiamo e a volte le disturba o le sottolinea con suoni, rumori, a nostro avviso, però il suo ruolo non risulta ben chiaro, nell’economia del racconto. Così come non ci sono sembrate utili le proiezioni fatte sul telo di garza, non sempre intelligibili e poco funzionali alla creazione di un’atmosfera, il riferimento alla neve fradicia, presente nel sottotitolo dello spettacolo, per esempio,  è ricordato solo tramite le parole.

Troviamo comunque giusta l’ambientazione, buona resa di ciò che si immagina leggendo il testo, giusto anche il tono della recitazione di Sgrosso, prima sommesso e poi esplosivo durante gli attacchi a Liza. Ma cosa manca, secondo noi, della profondità di Dostoevskij, a questo lavoro?

Manca il dubbio. Il protagonista del racconto è un continuo andirivieni di opinioni, sensazioni contrastanti, montagne russe (proprio russe!) tra l’abiezione di sé e l’esaltazione, tra autocommiserazione e improvvisa sfacciataggine. Nello spettacolo, invece, abbiamo visto troppa sicurezza. lI compiacimento della propria malvagità è componente imprescindibile, ma l’esclusione degli episodi corali del testo impedisce di vedere alcune delle sfaccettature più sgradevoli, più sofferte, più umilianti, che caratterizzano il personaggio, malvagio ma irrimediabilmente maldestro.

Mettere in scena il genio russo è un compito molto difficile, invitiamo quindi a vedere Le memorie di Sgrosso, che ci regalano comunque parole taglienti e che fa sempre bene ascoltare.