BRUNA MONACO | Tre strane figure in tuta bianca da polizia scientifica si insinuano fra gli spettatori, li avvicinano, sussurrano: “Sai chi è morto? È morto Amleto”. Così inizia Hamlet’s Dreams, spettacolo a tappe, o meglio a quadri: ogni scena è costruita come un tableau vivant che all’improvviso inizia a muoversi. Il pubblico insegue lo spettacolo: i quadri sono dislocati nello spazio, per ognuno cambia l’angolo di visione, anche il punto di vista dello spettatore è in movimento. È un lungo corridoio a separarci dalla seconda tappa, dal secondo quadro, l’azione è in corso prima ancora che il pubblico arrivi, quasi che l’urgenza degli attori non ammetta dilazioni. Su un palco quadrato che sembra un ring, tre uomini in tuta, forse pugili, mimano la scena dell’avvelenamento del re Amleto, la salita al trono di suo fratello Claudio e le nozze di Gertrude. Li riconosceremo più in là: colti nel momento delle prove, sono gli attori della compagnia di giro che presto prediranno la tragedia al castello di Elsinore. Chen Zhin Aman viene dalla Cina, Ayoub Elmounim è di Casablanca, Tarek Omezzine tunisino. Poi degli uomini in abito nero che sembrano becchini coprono la scena con un lungo telo nero. Dietro si prepara un nuovo quadro: si alza il telo e vediamo Gertrude, Claudio e gli altri cortigiani che banchettano sul cadavere del re (un esilarante Augusto Savi). Briciole di pane ovunque, sul corpo di Amleto padre, intorno alle bocche degli officianti/commensali. Il morto si alza e, in un romano musicale da stornelli da taverna, ordina la vendetta a un Amleto fragile ma determinato, contraddittorio, quindi estremamente umano, credibile (il bravissimo Ervis Hibraj).
Credibili sono tutti gli interpreti di questo Hamlet’s Dreams creato nel 2011 dalla regista del collettivo Teatro Metropopolare, Livia Gionfrida, perspicace, eccellente nella direzione degli attori: di ognuno dei venticinque che compongono il cast internazionale ha saputo cogliere e valorizzare le specificità. Alcuni recitano nella propria lingua o, più spesso, glissano sulle lingue, passando dall’albanese allo spagnolo, dal polacco all’italiano. E ci sono anche i dialetti ad arricchire il tessuto linguistico dello spettacolo, portatori di una cultura antica che sta scomparendo, di vocaboli arcaici che rimandano a concetti arcaici, e nostalgici di un mondo pre-globalizzazione. Così il siciliano ben declamato e orgoglioso dell’usurpatore Claudio (interpretato da Giovanni Tripodi) suona persino più ricercato e colto della lingua dell’Ambleto di Testori che viene fuori qua e là, soprattutto nelle parole della radiosa regina (Ilaria Cristini). Laerte (Grzegorz Wojdyło) parla in polacco in una delle scene più commoventi dello spettacolo: alto e massiccio, dal contegno brutale, si scaglia contro la sorella (una deliziosa Alessia Brodo in tenuta calcistica, con tanto di parastinchi e scarpette) per aver accettato il corteggiamento di Amleto. Ma ha uno sguardo così amorevole, così protettivo che la furia del corpo scomposto si frantuma in un gesto giocoso.

Hamlet’s Dreams è anche il titolo di un saggio di David Schalkwyk che esamina le somiglianze linguistiche tra la prigionia mentale di Amleto e quella fisica e psicologica dei detenuti di Robben Island durante l’apartheid. L’omonimia non può essere un caso dato che lo spettacolo di Livia Gionfrida è andato in scena presso la Casa Circondariale La Dogaia di Prato e che dei venticinque attori, ventidue sono detenuti. Allora, come accade solo quando c’è un grande disegno artistico, tutto assume un surplus di valore. Come l’urgenza degli attori, che non stanno ad aspettare l’arrivo del pubblico. Come l’idea di un’Ofelia in tenuta calcistica. Ofelia è un miraggio, per Amleto. Allora, anziché farle incarnare lo stereotipo della bellezza femminile, la regista la veste appunto nel più maschile dei miraggi: essere un calciatore. Elevando così l’inevitabile cortocircuito erotico di una ragazza che recita con un gruppo di reclusi in un potente cortocircuito intellettuale. Il finale è incantevole: Amleto, Laerte, Gertrude e tutti gli altri si passano un pallone, giocano, si divertono pensando alla libertà che non può esserci perché, come dice Shakespeare, tutto il mondo è una prigione. E perché le prigioni, quelle vere, hanno le sbarre.
Accanto a Peter Brook, Ariadne Mnouchine ed Eugenio Barba, oggi, il teatro internazionale lo troviamo in carcere. Un luogo che di certo non crea integrazione, un luogo in cui di norma la diversità non è considerata una ricchezza. Eppure, grazie al teatro…

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