BRUNA MONACO | Una scenografia essenziale da interno di appartamento sul palco aggettante dell’Argentina, un palco per l’occasione più lungo che largo, che viene incontro allo spettatore prendendo il posto delle prime file di platea. Poltrona, poggiapiedi, lampada e tavolinetto. Diego Sepe entra in scena dal fondo, indossa una comoda tenuta stile giapponese, pantofole ai piedi. Accende un incenso, si siede, si aggiusta. Il suo personaggio è subito chiaro, quasi uno stereotipo: l’uomo che ha raggiunto l’equilibrio, il “tipo zen”. Si sente bussare. Dall’altra parte di una porta immaginata c’è Luca Zacchini. Se Diego Sepe è rasato, ha capelli corti, veste comodo ed è “zen”, Luca Zacchini è tutto l’opposto. L’opposizione si radicalizza in un dialogo impossibile: la fiumana di parole dell’ultimo arrivato sbatte contro l’ostinato silenzio del padrone di casa. Diego Sepe è il fratello minore, Luca Zacchini il maggiore. L’incomunicabilità familiare prende subito forma scenica.

“Soprattutto l’anguria” ha un inizio dirompente, sopra le righe. Armando Pirozzi, firma la drammaturgia e riesce a farci credere e affezionare a una famiglia che dire disunita è poco. È ridotta in pezzi, scaraventati, come a seguito di un’esplosione, ai quattro angoli della terra. In Africa la madre, una suora laica. In qualche remoto deserto ghiacciato la sorella. In una foresta questo fratello minore – che rimarrà muto per tutti gli ottanta minuti dello spettacolo. In India il padre. È quest’ultimo il motore della storia. Tutto pare iniziare dalla notizia della sua presunta caduta in una trance metapsichica, una sorta di morte-non morte che il fratello maggiore viene a comunicare al minore. Ma mentre a parole Luca dipinge questa famiglia in fondo come tutte, ma così vivida nei suoi contrasti da apparire diversa, dai fatti ci si accorge che qualcosa non torna. Forse la storia è diversa da come ce la racconta. Luca riesce a convincere Diego a uscire in macchina: mette il poggiapiedi accanto alla poltrona, ed ecco i due posti davanti, mentre la lampada spostata all’altezza del conducente fa da volante. È il Luca attore o personaggio a rifunzionalizzare gli oggetti? Stiamo davvero attraversando una stradicciola sterrata nella giungla in direzione di un aeroporto? O siamo ancora nel salone di Diego che, inflessibile, tace e asseconda la follia del fratello?
Il dubbio che tutto ciò in cui abbiamo creduto finora sia falso inizia a farsi largo: nessuna mamma-suora, nessuna sorella nell’igloo, nessuna famiglia esplosa. Pirozzi ha scherzato, Luca è impazzito, il testo indietreggia. Da surreale pretende di farsi realista. Luca e Diego sanno qualcosa che noi non sappiamo, qualcosa che è successo anni addietro e ha portato Luca alla follia, Diego alla mania. Tracce di questo “qualcosa” sparse nel testo, nel monologo: la costruzione drammaturgica è ben congegnata nel dosaggio delle informazioni, tiene alta la tensione, ma quando tutti i tasselli compongono infine il mosaico ci si accorge che qualche incastro è forzato. Avremmo creduto così spontaneamente al silenzio immacolato di Diego se avessimo saputo di trovarci davanti a uno spaccato di realtà? Se avessimo saputo che quel “qualcosa” che i due nascondevano era un fatto tragico come il parricidio commesso da Luca bambino sotto gli occhi del fratello minore? Avremmo riso del mondo assurdo propostoci da Luca, se non lo avessimo immaginato vero? Avremmo riso se avessimo saputo Luca pazzo?
Far ricadere la follia su un trauma infantile. Nulla di più verosimile. Ed efficace. Eppure il testo di Pirozzi sembrava voler prendere altre strade, non concedersi al determinismo psicologico, alla macchina causa-effetto del positivismo. Malgrado il cambiamento di prospettiva in corsa, resta l’impressione che Pirozzi abbia una grande padronanza della materia-testo. Un mestiere solido, elemento rarissimo nei nostri drammaturghi. Il che, insieme alla bravura degli attori e alla sobrietà e precisione della messa in scena di Civica rende comunque “Soprattutto l’anguria” uno spettacolo di alto livello.