BRUNA MONACO | Siamo in Spagna ai tempi della Santa Inquisizione. Dopo secoli passati nel Regno dei Cieli, il Cristo è tornato in Terra. I tempi sono cambiati ma gli uomini no, la storia si ripete e anche questa volta è acclamato dalle persone comuni e rifiutato, poi incarcerato, da quelle di potere. Solo che stavolta il potere non è nelle mani di incolti colonizzatori pagani, né di farisei troppo ortodossi. Chi “può” e osa nella Spagna del 1600 è la Chiesa, quella che dal corpo e dal sangue di Cristo è stata partorita. Ed è il Grande Inquisitore in persona a ordinare il più blasfemo degli arresti e a condannare il proprio dio a una seconda morte per mano delle sue creature. Gli concede delle spiegazioni, però, ma più simili a rimproveri che a discolpe: come ha potuto Dio regalare agli uomini la libertà, dimenticando di concedere loro, al contempo, la forza di esercitarla nel modo giusto? Il lungo monologo recriminatorio dell’Inquisitore è accolto in silenzio da Cristo. Sul finale, invece che a parole, lui che è il Verbo, gli risponde con un bacio a fior di labbra turbando l’Inquisitore che lo caccia via, graziandolo.
È questo il racconto allegorico che Ivan Karamazov espone al fratello Aleksej in uno dei più fortunati romanzi di Fedor Dostoevskij, I fratelli Karamazov. Peter Brook lo ha adattato alla scena con l’aiuto della sua storica collaboratrice Marie-Hélène Estienne, affidandolo all’interpretazione di Bruce Myers (che fu Krishna nel Mahâbhârata e il re impazzito del King Lear) uno degli attori più anziani e bravi di Peter Brook.

L’azione è racchiusa in un piccolo spazio delimitato da un tappeto grigio. La scenografia è scarna, quasi assente: una sedia sul bordo posteriore del tappeto e un leggio con dei fogli grandi, giallognoli. Essenziale è anche la partitura fisica: tutta l’attenzione è sul testo e sul modo in cui Myers lo interpreta, masticando le parole, cercando per ognuna loro una consistenza fisica. L’indiscutibile bravura di Myers filtra attraverso la sua veneranda età che, pur portando qualche buco alla memoria, nulla toglie alla presenza scenica.
Il grande Inquisitore, però, non convince del tutto il pubblico in sala. Forse perché il testo, strappato al romanzo che lo conteneva e gli dava un senso più profondo, resta un’allegoria intelligente ma troppo esile per reggere da sola la tensione scenica. O forse, più semplicemente, perché infiacchito dalle repliche e dall’età, lo spettacolo tradisce una certa stanchezza.