RENZO FRANCABANDERA | Nata all’interno degli accordi di scambio culturale italo-francesi per il programma Face-a-face, la regia di J-C Penchenat che ha aperto la stagione del Massimo di Cagliari nasce dall’idea di prendere alcuni testi brevi del drammaturgo francese J-C Grumberg, per legarli assieme in un’unica pièce.

Tradotti da Genevieve Rey-Penchenat con il supporto di Oliviero Ponte di Pino, questi piccoli frammenti, sono appuntite schegge di uno scrittore nato nel pieno della seconda guerra mondiale da famiglia ebrea e che quell’imprinting riporta nella sua scrittura, con piccole punte di cattiveria e pungente ironia contro il modo di vivere borghese, i suoi preconcetti, il suo dir male.
Lo spettacolo si articola in due atti: nel primo vengono presentati tre scritti, uniti proprio da questa logica di stampo più sociale, di sferzante critica al nostro tempo, che viviamo come tracotanti villeggianti, incapaci di comunicare con alcuno che abbia un idioma, un modo di pensare, di essere differente dal nostro. Il secondo è invece composto da due drammaturgie della durata di mezz’ora ciascuna, che hanno come tema unificatore il tema della madre, una figura tipicamente anziana, se non già morta, che in un caso parla freudianamente dall’oltretomba ad un figlio maturo, bendato, su un letto d’ospedale, incapace di aprire gli occhi al mondo e che ancora attende dolcezze che non potrà avere più. L’ultimo frammento, rappresentato in prima assoluta all’interno di questo ipotetico centone dedicato al drammaturgo, racconta invece degli ultimi giorni di una madre anziana, fra l’ospizio e una fuga da un micro mondo ormai incapace persino di tutelare un cesso privato per i suoi bisogni. La sua sarà una fuga per la morte, che lascia suo figlio solo e fermo nel suo probabile non averla mai capita davvero.
Come è stato costruito l’allestimento dal punto di vista scenico e registico:
Il palcoscenico è partito in due ambienti: uno più piccolo, nero, che lo occupa per un terzo alla sinistra, pieno di oggetti, libri, cianfrusaglie, su cui domina una disordinata scrivania, che la regia sfrutta immaginandola abitata da un personaggio che interpreta lo scrittore stesso; l’altro, che prende la maggior parte della scena, è bianco e vuoto, riempito di tanto in tanto con pochi oggetti, capaci di raccontare un’ambientazione (un lettino per l’ospedale, un drappo arabo e due cuscini per un esotico ristorante nordafricano, due piantine per un giardino pubblico). Questa idea scenica è esito di un concorso di idee bandito dal teatro e destinato ai giovani.
Un nutrito gruppo di ragazzi ha presentato un progetto per la scena nell’ambito del bando “Largo ai giovani”; quello accolto è quello di alcuni studenti dell’Università di Cagliari e, all’interno di questo, il regista ha poi ambientato il suo pensiero. Non sappiamo se i ragazzi siano stati ispirati dal regista stesso, che aveva loro già comunicato la sua idea di resa scenica, o questa sia stata precedente e abbia, per così dire, ispirato la regia. Il secondo caso sarebbe quantomeno singolare, ove avvenuto in assenza di dialogo. Ma tant’è, anche ove il dialogo sia occorso, rileva fondamentalmente il fatto che un terzo della scena, la stanzetta dello scrittore, sia ambientazione al pretesto drammaturgico che individua come collante di queste schegge narrative sganciate l’una dall’altra, la presenza di un attore che interpreta lo scrittore, che vede scorrere sotto i suoi occhi, eminentemente nella metà bianca della scena, la messa in atto delle sue opere. Ben presto si intende come ai fini della fluidità narrativa e teatrale di sequenze, che sembrano nate e ispirate a una formula interpretativa quasi da rivista, a pochissimo giova l’idea di questo scrittore, che non solo non è cemento logico di alcunché, ma finisce per essere forse visivamente d’intralcio ad un ambiente scelto come asettico, vuoto, come il mondo che vuole raccontare.
Da questo deriviamo una sensazione di particolare pigrizia registica, se ci si può passare la licenza, una regia che non fa nessuna scelta forte sul testo né sulle interpretazioni del testo, chiedendo agli interpreti un naturalismo che di tanto in tanto va sopra le righe, quasi a voler accentuare il tono satirico di quanto viene recitato. Quasi nullo il lavoro sul corpo, salvo quanto affidato all’esperienza di alcuni interpreti.
Le musiche sono ispirate per largo tratto a una melodia klezmer, anche in questo caso senza alcun particolare sforzo di fantasia.
Oltre tutte le considerazioni che precedono, lo spettacolo favorisce anche un pensiero su come a teatro, come probabilmente in ogni altro ambito della società, rottamare tout court l’esperienza bollandola come vetusta maturità sia un pensiero folle. Se qualcosa infatti di questo spettacolo riesce dal punto qualitativo a stare a galla, è perché trova appiglio nelle interpretazioni degli attori della generazione matura (Saliu, Orchis, Spiga, Careddu, Bodio), capaci di modulazione vocale, di timbri e cadenze del recitato che consentono al testo di non sviluppare un andamento piatto e superficiale. Particolarmente insufficienti risultano, per contro, le recitazioni dei due giovani (Meringolo e Zerbo). Apprezzabile il fatto che siano stati scelti e integrati nello spettacolo come esito di un laboratorio (“Questa sera si recita Grumberg”), ma le loro prove, così rigide e impostate, non profondamente attente al comunicare il senso della presenza scenica, creano una falla importante nella chiglia di una nave che già di suo è stata pensata per una navigazione non così agile, come il testo avrebbe invece meritato.
Quanto il gesto di addentare un pezzo di cioccolato (ovviamente non reale ma invisibile), è interpretato da uno di costoro all’inizio della pièce con superficiale incuria, allungando la mano e portandola alla bocca e attivando una finta masticazione, che avrebbe potuto essere uguale per qualsiasi altro immaginifico alimento, senza comunicare l’idea della consistenza di quel cibo o la sua croccantezza resistente, tanto blandamente anche la regia addenta il testo, le sue parti e l’insieme, con sciatteria.
Così dalla fruizione deriviamo un gusto totalmente insipido, il testo e la sua dinamica potenzialmente salace perdono via via forza di essere, e tutto scivola via in un mediocre progredire senza idee forti, fino al salvifico buio finale.