Siamosolonoi-RiondinoLAURA NOVELLI | Per parlare dello spettacolo di cui dirò in seguito ho deciso di iniziare dalla fine. Ovvero, dai commenti captati nella toilette delle signore a fine rappresentazione, allorquando mi si para davanti una donna anziana, distinta e dallo sguardo intelligente, chiedendomi se avessi capito qualcosa di quanto andato in scena poco prima. “Sono cresciuta – mi dice – in questo teatro (alludendo all’Eliseo di Roma e, nello specifico, al Piccolo Eliseo), ci vengo da trentotto anni, ho visto tanti grandi artisti ma a volte rimango interdetta: o sono io che mi sono un po’ rimbambita o c’è qualcosa che non va in chi fa teatro”.
Ribatto gentilmente spiegando quel che già so del lavoro, essendomi documentata prima, e leggiamo insieme il comunicato stampa con le relative note di regia.
Dopodiché l’arguta signora conclude: “Scusi, ma se il teatro non arriva in modo diretto e chiaro al pubblico, a che serve?”.

La saluto pensierosa, radicata nella convinzione che il giudizio di questa spettatrice accorta abbia fatto centro. Perché molto del nuovo lavoro scritto da Marco Andreoli, “Siamosolonoi” il titolo, e interpretato da due bravi attori ben noti al grande pubblico quali Michele Riondino (“Il giovane Montalbano” è il suo ultimo successo) e Maria Sole Mansutti (divenuta popolare con “Distretto di polizia” ma già nel cast di film importanti come, ad esempio, “La ragazza del lago”) ha qualcosa che sfugge. O meglio, qualcosa di straniante, che a mio avviso non gli permette di sintonizzarsi su una frequenza che risulti coerente e coesa tanto a livello formale quanto contenutistico. “Siamosolonoi”, diretto da Circo Bordeaux (e dunque dagli stessi Riondino e Andreoli) si muove infatti tra infantilismo alla Gian Burrasca, surrealismo alla Copi, espressionismo alla Vacthangov, minimalismo intimista e accenti grotteschi infarciti di note naïf per raccontare la crisi di una coppia che, per buona parte del lavoro, aspira a mostrarsi altro.

Quasi fosse cioè il quadretto di un menage in cerca di vie di fuga stravaganti, destinate però a perdere vigore sul finale, quando il reale e la grigia routine del quotidiano rompono il “gioco” – perché di gioco si tratta, e persino avvalorato da colte teorie matematiche – per cadere in un cliché fin troppo scontato.
La storia si consuma nel chiuso di una cucina di gusto retrò arredata con mobili e utensili abnormi rispetto alle dimensioni dei protagonisti. Ada è una donna/bambola dall’ampio abito carnevalesco che salta dal frigorifero al tavolo con godibile agilità e rincorre il tenero Savino, marito/compagno di giochi dall’aria fragile e discola che snocciola fantastiche storie di battaglie epiche nel tentativo di sedurre l’energica “bambina” e di stemperarne gli aspetti più autoritari. Entrambi vivono dunque in una dimensione immaginaria e ludica che si sono costruiti per sopravvivere al dolore di non amarsi più o, più presumibilmente, per rimandare il tempo dell’abbandono. Corrono, saltano, si fanno i dispetti, si picchiano proprio come due monelli di strada, mentre la forza affabulatrice di cui si nutrono (ad entrambi gli interpreti bisogna riconoscere maestria ed estrema disinvoltura espressive) li trasporta – e ci trasporta – tra battaglie cruente, rievocazioni storiche, atmosfere favolistiche, virate oniriche. In questo mondo poetico e battagliero, non scevro da tinte noir e trash, c’è persino spazio per l’apparizione fugace di un cadavere: un altro luogo della mente, un’altra suggestione visionaria attraverso cui interpretare la complessa dinamiche che tiene insieme i due sposi. Lui usa il fantastico per togliere potere a lei; lei incute paura per tenere a sé l’uomo.

E’ una mappa di strategia bellica il terreno reale su cui agiscono (il testo stesso si rifà espressamente ai giochi del matematico John Forbes Nash, incentrati sul guadagno del consenso a spese dell’avversario) ma, purtroppo, non se ne capisce il senso. Qualcosa appunto sfugge. Non è chiaro a cosa miri questa parabola sospesa nel tempo fermo dell’illusione. Certamente l’epilogo, laddove i due diventano adulti e si misurano con il soffocante vuoto di un rapporto che langue, svela qualcosa di più, ma questo più sembra che arrivi tardivo o, forse, inopportuno o forse fin troppo semplificativo: Savino esce da quella cucina/mondo che rappresenta la prigione di ogni amore infelice (tanto più che lo spazio chiuso e unico è un topos ricorrente in gran parte della drammaturgia contemporanea) e molto probabilmente non tornerà a giocare ancora con Ada, impazzita come impazziscono le bambole meccaniche quando le si priva della loro ossessione.
Se tuttavia il testo suscita perplessità, resta da applaudire la bella prova di Riondino, ingenuo, stralunato, liricamente infantile ma molto incisivo nella parola e nella mimica, e della Musatti, un’attrice dal carattere deciso che qui non stenta a mostrare grinta e talento.

Qui alcune immagini dello spettacolo realizzate dai redattori della web tv dell’Eliseo
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