MARAT | Arriveremo a Roma. Malgrado voi. Così mi dico, ottimista che quasi non mi riconosco. Mentre sabato mattina seguo l’edizione speciale delle Buone Pratiche, in diretta dalla Fondazione Cariplo. Con la consueta coppia di presentatori e il Ministro Bray come ospite internazionale. Che la sera prima era a chiacchierare con i musicisti e mi sa che si è divertito di più. Nonostante la musica indie. E ho detto tutto. Che il teatro è un po’ ripetitivo. Ed eccolo il tizio che mi cita Strehler. Si sa, la frammentarietà è caratteristica del format, figurarsi nel mentre della legge “Valore Cultura”, grassa di nobili speranze, i cui decreti attuativi vanno decisi entro la fine dell’anno. Politica permettendo. Adrenalina. La frammentarietà diventa sovraeccitata, le istanze preghiere. Che sul tavolo c’è un po’ di ciccia, anche se mica si capisce bene chi siederà a quel tavolo. Né chi si mangerà la ciccia. Si parla (ovviamente) di semplificazione, svecchiamento, ripristino del FUS, residenze, progettualità triennale. Cose così. E io mi domando quanti dei futuri decreti siano in realtà già decisi. Quanti margini ci siano al di là delle piacevoli conversazioni rivoluzionarie. Mi domando quanto peso abbiano i colloqui nei corridoi. I baratti. E quanto rimanga fra le pagine chiare e le pagine scure, di quella bulimia di richieste che finisce per ubriacare. Da tempo il settore avrebbe dovuto concentrarsi su piccoli, sporchi ma tangibilissimi obiettivi. Invece che aspettare dall’alto (sempre dall’alto) l’arrivo di una legge quadro di sistema. O anche solo un cambiamento come questo, dal nome sfigatissimo. Concentrarsi su questioni inderogabili e quotidiane, la cui risoluzione a molti cambierebbe la vita: dalla problematica forma giuridica dell’associazionismo culturale all’abuso delle partite Iva, piuttosto che la patetica ingerenza della burocrazia. Prese di posizione. E risultati. Che avrebbero anche avuto il merito di nascondere la congenita incapacità del teatro di farsi categoria. Sorta di guerriglia, prima di provarsi in campo aperto. Ma tant’è. Ora va così. E ammetto che alla fine prevale in me la sensazione che forse, per questa volta, vale comunque la pena vedere l’effetto che fa. Mi piacerebbe solo capire meglio dove e come si gioca la partita, se le regole sono uguali per tutti. Capire le possibilità che quest’ipotesi di cambiamento possa diventare una buona notizia. E se poi si dovesse peggiorare… mon dieu, saremo davvero così inadeguati? Avremo pure imparato qualcosa dalle segretarie con gli occhiali che riescono a farsi sposare dagli avvocati. O forse no?
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