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VINCENZO SARDELLI | C’è una periferia che non vuole illanguidire. Che strappa cultura a morsi, e apre spiragli di centralità a chi non si rassegna agli onanismi esistenziali di schermi piccoli e medi. Spazio Teatro 89, Milano, quartiere Quarto Cagnino, prende forse il nome da un semplice numero civico di via Fratelli Zoja. La mente, però, va al ‘68 capovolto, all’altra faccia di una rivoluzione epocale, quel 1989 che sancì la caduta degli steccati ideologici e ridiede respiro ai cittadini d’Oltrecortina. Non stupisce sia stata questa la location del Festival Anteprima89, alla quarta edizione, nel 2013 dedicato al tema Indipendenze.

IndipendenzeIn…dipendenzeIndi…pendenze. Si può giocare sul nome di questa rassegna che dal 10 al 19 ottobre ha accolto sei rappresentazioni teatrali e un film (Tra Cinque Minuti in Scena, produzione Rossofilm) il tutto preceduto da aperitivi e talks. Il festival, intellettualmente intrigante, dedica la sua attenzione a nuove produzioni teatrali della rete milanese nella fase del debutto. Quest’anno ha evidenziato le pressioni che incidono sulla vita delle compagnie, i meccanismi che portano i produttori a scelte che troppo spesso favoriscono la commercialità a scapito della qualità. Assenza di visibilità da parte dei teatri, silenzio della critica, mancanza di spazi di confronto tra artisti, sono una mannaia sull’esistenza stessa di queste compagnie. La riflessione di Davide Gorla di Odemà sul nostro magazine ne è testimonianza.

PAC non è mancato all’appuntamento diretto da Gianluca Di Lauro. Nel corridoio che conduce alla sala la mostra fotografica di Livio Moiana, Corpi in_dipendenza, fa da viatico alle compagnie che si susseguono in scena: Collettivo Pirate-Jenny, Cristina Castigliola, LeCall Theatre, SanPapié, Teatro dell’Albero, Teatro della Madrugada. Il bianco e nero di Moiana, fotografo di moda e ritrattista, è un intreccio di corpi statuari scolpiti dalla luce e animati dal contrasto, che sfidano se stessi per diventare altro. Lo sdoppiamento nasce dalle relazioni: la dipendenza crea un’entità nuova: in-dipendente appunto.

Stimolante quanto abbiamo visto sul palco. A partire da Mario Barzaghi (Teatro dell’Albero), indecifrabile ibrido tra Frate Indovino e Garibaldi lupo di mare, con il suo burlesco Sancio Panza e Non Chisciotte (regia Tage Larsen, luci Marcello D’Agostino). Il panciuto, barbuto e capelluto protagonista propone un Sancio che si ribella all’autore e rivendica un ruolo da big. Cavalcando a suon di tip-tap in groppa a un ciuco di compensato, Barzaghi, movenze da burattino stile Totò a colori, usa una pantagruelica koinè tra francese, latino, spagnolo, meneghino, inglese e tedesco. A recitare, in quest’esibizione marionettistica, sono glutei, gambe, polpacci, ginocchia e piedi, dotati d’insospettata energia semovente. Torace e addome sono cassa di risonanza per vocalizzi da operetta e ritmi rap. Corpo e scena sono tutt’uno in questo vecchio goliardo cresciuto a pane e katakhali, dalla mimica comicamente didascalica.

Straniante Mi sono perso a Milano di Sanpapié, esperimento di teatro canzone in bilico tra psicanalisi e musica elettroacustica, con escursioni techno e luci intimistiche che deflagrano nello stroboscopico. Più affini a Leonard Cohen che a Giorgio Gaber, i Sanpapié propongono una metropoli che è luogo delle occasioni ma anche labirinto di depressione. Un’ansiogena sensazione di precarietà e un’ironia autodistruttiva affiorano attraverso testi che ricordano Dario Vergassola d’antan versione impegnata, e raccontano una crisi sempre più di moda. Uno spettacolo minimalista, dalla surreale comicità sottovoce, che denuncia le convenzioni borghesi e prova a esorcizzare le frustrazioni contemporanee.

Preceduto da una deterministica lezione del filosofo Alberto Giovanni Biuso su libertà e indipendenza, lo spettacolo La bomba. Della necessità del fare di LeCall Theatre è una ballata multimediale che mette insieme Storia di un impiegato di Fabrizio De André e storie di vite dismesse nell’Italia del terzo millennio. A parte la riflessione sulla genialità evergreen del cantautore genovese, emerge, in quest’intreccio di musica, video e recitazione la buona prova di Valentina Rho, in perenne equilibrio su una putrella di ferro a 30° su un perno. L’attrice vi si erge, vi striscia, si arrampica, si aggrappa. Vi si china malinconica. Vi depone davanti a un giudice. Dietro di lei scorrono (forse troppo a lungo) immagini di auto e cravatte, di corse e paesaggi desolati. Le elaborazioni elettroacustiche di Maurizio Corbella danno il la alla fusione dei linguaggi. Uno spettacolo sull’alienazione che è narrazione, canto e commozione. Il testo e la regia di Chiara Tarabotti evocano quadri tra Kerouac e Ginsberg. Con atmosfere tra Metropolis di Lang e il soliloquio finale del Grande Dittatore, anche La bomba si inserisce nel filone del festival, viaggio toccante per riflettere su quello che ci rimane e su quello che stiamo perdendo.

Il Sancio de sostanza di Barzaghi

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I Sanpapié ci credono
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