sorelline

VINCENZO SARDELLI | Nessuna etichetta identifica Cechov. Sobrio, modellato sul tragico dell’esistenza umana, lo stile del drammaturgo russo fa pensare a una struttura sinfonica. Senza però che la potenzialità emotiva dei vari temi sia mai interamente sviscerata.

Per questo Cechov dialoga con il presente. E sa creare, ogni volta, nuove rivelazioni.

Paradossale la scelta di Comteatro. Che a nove anni dal Giardino dei ciliegi, canto del cigno del drammaturgo russo, si accosta al suo penultimo lavoro,  Le tre sorelle, di scena al Leonardo di Milano.

La compagnia di Corsico in questo flashback artistico fa propria la complessità dell’autore. Ne preserva il testo integrale, per raccontare il dramma con i colori della commedia.

Le tre sorelle è la vicenda di Andrej e delle sue tre sorelle, Olga, Maṧa e Irina, sullo sfondo della provincia russa. Flirt e innamoramenti sono l’instabile alternativa alla noia. Svanite per tutti le speranze giovanili, matura l’epilogo che fissa un destino grigio.

Sono tredici gli attori affiatatissimi al centro della scena minimalista creata da Anna Bertolotti. La compongono archi da cui cascano veli lambiti da luci sfumate e sottili, notturne o diurne primaverili, che generano colori macchiaioli. I veli diventano porte, gazebo, tende, scenari da casa dismessa.

Girotondi e danze, marce ritmate e movimenti convulsi, evocano un teatro di figura. Dei movimenti tuttavia sfugge lo scopo: sembrano fini piuttosto che mezzi, forse da ricondurre alla volontà di prevenire la stanchezza del pubblico, se si considera il testo articolato in due atti per un totale di due ore e mezza. Dunque, spazio al canto corale, alla chitarra live (la direzione musicale è di Gipo Gurrado), mentre Maṧa-Carola Boschetti è sempre introdotta da malinconici cenni d’armonica leziosi. A fugare gli sbadigli e a rendere piacevole lo spettacolo sono anche le belle coreografie a gruppi in cui i personaggi, in costumi di fine Ottocento (di Alice Di Nuzzo), ammiccano, si attraggono, si respingono. Poi, fiaccole e lumini, mantelli che svolazzano. E la trovata metateatrale di un faro (guidato da Fausto Bonvini) che scolpisce un’umanità ipocrita e oziosa, limitata suo malgrado all’appagamento delle funzioni primarie.

È forte la ricerca di equilibrio in una messinscena dove il regista Claudio Orlandini tempera le derive grottesche e spazia su registi classici dal buffo al solenne alla pantomima.

Nella recitazione misurata ed efficace, con qualche bozzetto, si distinguono Chantal Masserey, Cinzia Brogliato, Carola Boschetti e un Marzio Paioni dall’umorismo gentile. Con loro Paola Casella, Michele Clementelli, Luca Chieregato, Davide del Grosso, Federico Gobbi, Leo Mignemi, Laura Rostiti, Carlo Zerulo e lo stesso Orlandini.

Il viso degli attori, truccato da Beatrice Cammarata, scava nella poetica di Cechov. Narra l’impossibilità del futuro e il vuoto esistenziale. La vita illanguidisce, le parole creano spazio, e si aggrappano all’esistenza per lasciare un graffio.

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