Padre Cicogna 070LAURA NOVELLI | Ogni volta che ci accosta a un’opera di Eduardo, ci si accorge di quanto teatro egli abbia scritto anche ad di fuori del teatro, nelle poesie, nelle lettere, nei racconti. Ci si accorge, cioè, di come il linguaggio e la sensibilità teatrali che gli erano propri, che gli appartenevano in modo istintivo e viscerale, abbiano garantito alla sua scrittura non solo un’adesione piena alla vita ma anche e soprattutto quell’unità di temi, di situazioni, di considerazioni sull’uomo che rappresenta la forza più audace e più duratura della sua intera produzione. Alla sorgente di questo vigore vi un profondo senso di pietas: compassione per i suoi simili e per i più fragili, ostinato disprezzo per le ingiustizie e i soprusi, ribellione contro l’ipocrisia delle relazioni sociali e del potere ne ispirano i destinatari/personaggi componendo nel loro insieme, sempre e comunque, uno straziante scorcio di umanità, di voi, di noi. E se questo grumo di sapienza umana, questo incessante chiedersi come sopravvivere malgrado il dolore, innerva tutti i suoi capolavori per la scena, non di meno rifulge nei testi più brevi, nei versi scritti tra una commedia e l’altra.

Esempio ne sia lo splendido poemetto “Padre Cicogna”, composto nel ’69, che Luca De Filippo e Nicola Piovani (autore delle musiche) hanno trasformato in un racconto musicale di respiro sinfonico (con numerosi intarsi di musica etnica) dove orchestra, cantanti (soprano, mezzosoprano, baritono e basso) e voce recitante (lo stesso Luca) restituiscono l’idea di un corpo organico capace di drammatizzare la storia, non scevra da declinazioni grottesche, anche in assenza degli attori. Come se, cioè, la musica stessa si incaricasse di “trainare”, allargare, rendere viva e presente la materia poetica del testo, facendole prendere il volo, sublimandola in una poesia di note e parole che aggiunge senso alla già emblematica trama. Sarebbe a dire la vicenda, umanissima e dolorosa, di un prete spretatosi per amore di una donna che, al fine di scongiurare la temibile vendetta divina, promette al Signore di mettere al mondo tre figli maschi e di chiamarli come i tre magi, Melchiorre, Baldassarre e Gaspare, così da omaggiare, ad ogni nuovo Natale, la nascita del Bambinello e di cantare in suo onore “Tu scendi dalla stelle”.

Un’ossessione natalizia quella di quest’uomo tarchiato, con i capelli sale e pepe, che ha il coraggio di mostrarsi nudo davanti al crocifisso, spoglio di pregiudizi e menzogne (siamo nel folgorante incipit), che ricorda dunque molto da vicino l’ossessione per il presepe di Luca Cupiello, il protagonista di “Natale in casa Cupiello”; e sono infatti diversi i momenti in cui “Padre Cicogna” evoca atmosfere e tematiche di quel capolavoro (tornato quest’anno sulle nostre scene in una coraggiosa rilettura di Fausto Russo Alesi recensita per PAC da Elena Scolari), capovolgendo la religiosità in frustrazione, il bisogno di comprensione in sconfitta, la ricerca di una rispettabilità sociale ed affettiva in  solitudine, lo slancio verso la vita in un inspiegabile viaggio verso la morte.

Il povero Emanuele Palumbo e sua moglie Caterina, divenuti genitori di ben sette bambini,  non riusciranno infatti a tenere fede al voto; anzi, si vedranno costretti a seppellire molti dei loro figli, morti prematuramente di malattia e o in seguito a cadute rovinose, mentre intorno al loro strazio crescerà sempre più il muro dell’indifferenza, della condanna, del rifiuto. Nessuna compassione da parte della Chiesa. Nessun conforto da parte dei vicini di casa, un tempo amici. Ma oltre ai fatti colpisce, in questo sconcertante quadro di tragicità quasi classica, la lingua di Eduardo: quelle descrizioni così puntuali, così commosse; quelle illuminazioni filosofiche sull’esistenza (“Chistu fatto è succiesso…/ e s’è mmiscato /mmiez z’a tant’ati fatti ca succedono”); quelle pause così necessarie; quelle frasi ripetute a ritmo salmodiante. E colpisce parimenti la forza narrativa con cui la musica anima il testo, ne intercetta lo schema metrico e lo traduce in brani cantanti che vi aderiscono pienamente, accompagna gli scarti emotivi più decisi, amplia la vividezza di personaggi. Basti considerare, ad esempio, il “tema” di Padre Cicogna, il lamento funebre della madre (affidato al canto e al “grido” straziante della chitarra elettrica), i numerosi brani canori della tradizione natalizia partenopea riadattati ad hoc dal compositore e l’intensa ninna nanna tratta da una poesia che Eduardo dedicò proprio al figlio: “Si te parlo / me parlo”  (www.attikmusic.it/contenuti/videowatch.asp?id=peoSffj2nWU&amp).

Lo spettacolo, debuttato al Teatro San Ferdinando di Napoli il 20 dicembre 2009 in occasione del 25° anniversario della scomparsa del grande autore e attore, ha poi replicato al Teatro Carlo Felice di Genova, al Teatro Dal Verme di Milano, al San Carlo di Napoli, al Teatro Greco di Taormina, nell’Anfiteatro Romano di Lecce, per poi approdare, l’11 e il 12 dicembre scorso, al Petruzzelli di Bari (con l’orchestra del medesimo teatro e i cantanti solisti Susanna Rigacci, Susy Sebastiano, Pino Ingrosso, Masuto Utzeri), dove è stata anche effettuata una ripresa televisiva andata in onda su Rai1 il 28 dicembre alle 23.45.

Chi tira tardi la sera davanti al piccolo schermo avrà forse avuto la “fortuna” di seguire la trasmissione. E senza dubbio avrà notato che uno spettacolo così importante, appeso tra “Super Brain” e il Tg1, non ha “meritato” neanche cinque minuti di introduzione o di spiegazione successiva. Persino “Applausi” di Marzullo (in onda subito dopo il telegiornale) ha “dimenticato” di riservare spazio all’evento. Un vero peccato. Ma anche un chiaro segno dei nostri tempi approssimativi e superficiali. E c’è da rimanere ancor più sconcertati se solo si considera con quanto amore lo stesso Eduardo abbia curato le riprese televisive dei suoi capolavori teatrali. Tuttavia ci consola il fatto che, palinsesto Rai a parte, questo “Padre Cicogna” gli sarebbe piaciuto sicuramente. E gli sarebbe piaciuto anche per la sua coralità, per il contributo di tutti gli artisti e i musicisti coinvolti. Per l’interpretazione sobria, amara e in fondo disperata regalataci da Luca.