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LAURA NOVELLI | Una delle eredità maggiori che si porta dietro chi come me abbia frequentato il Dipartimento di Discipline dello Spettacolo de “La Sapienza” parecchi anni fa, è l’insegnamento di grandi storici del teatro come Fabrizio Cruciani e Ferdinando Taviani sui cui saggi critici abbiamo trascorso appassionate ore di studio. La questione centrale era e resta quella della deperibilità del fatto  spettacolare (deperibilità delle opere così come delle operazioni) e, di conseguenza, della ricerca di percorsi storico-critici che ne garantiscano una ricostruzione per lo meno affidabile. Le parole di quelli che considero i miei due maestri mi hanno spesso illuminato a riguardo e mi hanno radicata nella convinzione che, sebbene il teatro sia scritto sempre sull’acqua, il modo giusto per poterlo raccontare c’è, e non può essere mai lo stesso visto che non sono mai gli stessi né  l’oggetto né il soggetto del racconto.

L’ho presa un po’ alla lontana per parlare di un libro edito di recente dalla Titivillus (www.titivillus.it) che, dedicato ad un grande maestro della nostra scena contemporanea quale Giancarlo Cauteruccio, indica una strada percorribile, un modo giusto per osservare il passato senza perdere di vista i suoi legami con il tempo presente. Si intitola “Teatro Studio Krypton. Trent’anni di solitudine” e l’autore è Simone Nebbia, (tra le firme di punta della rivista www.teatroecritica.net) che, attraverso una serie di conversazioni/interviste con lo stesso Cauteruccio, sa trasformare la curiosità in pensiero, parola avvolgente, riflessione allargata e trasversale. Un incontro generazionale dunque. Una conversazione tra ieri e oggi. Un outsider del nostro teatro confida e affida la sua solitudine, la sua posizione proficuamente periferica allo sguardo “accuratamente ingenuo” di uno studioso che non c’era, che non ha visto molti dei lavori di cui parla, e che proprio per questo sa interpretarli a posteriori, partendo dalla contemporaneità.

Architetto di formazione, calabrese di nascita, toscano di adozione (a Scandicci ha fondato e dirige uno spazio multiforme  e poliedrico quale il Teatro Studio), intriso di cultura artistica, filosofica e rinascimentale, sperimentatore indefesso e audace, Cauteruccio ha attraversato, con i suoi spettacoli (cito almeno “Eneide”, “L’ultimo nastro di Krapp”, “Finale di partita”, “Roccu u Stortu”, “Ubu c’è”, “Picchì mi guardi si tu si masculu”), generi, linguaggi, epoche, immaginari, autori, scritture diverse. E il libro di Nebbia accondiscende questi attraversamenti evitando la mera cronologia per prediligere, piuttosto, un taglio tematico che nel corpo centrale del saggio (intitolato “Visioni”) articola la trattazione in tre emblematiche sezioni: “Trittico troiano. Un’opera modulare” (dedicata al lavoro “Crash Tröades” e alle sue varianti), “Un Beckett di Calabria, o della solitudine” (che racconta il felice incontro tra Krypton e la drammaturgia beckettiana intesa soprattutto come impossibilità della rappresentazione) e “Il teatro e la città” (dove si ricostruisce il rapporto stretto tra spazio e corpo, tra visione architettonica e architettura delle parole, tra luogo teatrale e teatro urbano).

Due conversazioni con lo stesso Cauteruccio aprono e chiudono questa ampia indagine critica: la prima dedicata a “La parola politica”, la seconda a “La parola poetica”. Laddove – forse – l’una sembra imprescindibile dall’altra. Ne risulta un omaggio sincero, puro, profondo, che lascia intuire quella esemplare coerenza con se stesso e il proprio percorso artistico che è sempre stata una caratteristica della ricerca di Cauteruccio. La predilezione per l’arte visiva non ha mai, infatti, lasciato nel retrobottega del suo laboratorio creativo il lavoro sui testi, sui temi, sulla lingua madre, sulle grandi questioni umane ed etiche suggerite dai classici cosi come dalla realtà e dalla storia coeva (e anzi, il più delle volte i classici sono assunti a modelli archetipici dove risuona la contemporaneità). L’innovazione tecnologica iniziata negli anni ’80 (basti pensare all’uso del laser in scena), pur nei suoi accenti sfacciati e provocatori, non è mai sganciata dalla riflessione sull’antico, sull’estetica barocca, in particolare sulla luce e sulla luce come verbo.

Il volume, arricchito da disegni dello stesso Cauteruccio e da una prefazione di Franco Cordelli – lui sì spettatore/testimone di tanta storia spettacolare della compagnia – è stato presentato a Roma qualche giorno fa alla Casa dei Teatri (proprio in concomitanza con la mostra/omaggio a Beckett “Prigionie (in)visibili”) e l’incontro – cui hanno partecipato Dario Evola, Giuliano Compagno, Ilaria Fabbri, Paolo Ruffini, oltre ovviamente all’artista e all’autore – ha offerto l’occasione per un confronto tra studiosi, amici, intellettuali, operatori che hanno intercettato nel loro percorso umano e/o professionale la cultura e la sensibilità di teatrante unico nel suo genere. Dal luogo appartato della sua “prigionia”, Cauteruccio ha saputo dialogare con il passato e con il presente. Li ha sovrapposti. Li ha forzati verso linee di fuga coincidenti. Li ha aperti al futuro. Questo libro ripercorre il suo viaggio e dimostra che, sebbene il teatro sia scritto sempre sull’acqua, il modo giusto per poterlo raccontare c’è.

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