GIULIO BELLOTTO | 10580937_318635584963753_5948745514806530445_oL’ultima luna d’estate, così si chiama il festival par excellence del teatro in Brianza, che grazie al lavoro prezioso di Teatro Invito porta nella zona del parco di Montevecchia e della Valcurone artisti provenienti da tutt’Italia e attira una schiera di spettatori da Monza e dalle aree limitrofe. La manifestazione, sviluppata su più comuni, si dichiara promotrice di un teatro “popolare di ricerca” ovvero si propone come luogo d’incontro tra il vasto pubblico e l’essai artistico nazionale.

Agli spettatori finora intervenuti spetta il compito di valutare se questa promessa sia stata mantenuta o meno, ma quindici giorni l’anno (per questa 17° edizione dal 23 agosto al 7 settembre) in cui un’intera provincia si anima di rappresentazioni teatrali di ogni genere, dalla lettura scenica al teatro di narrazione alla commedia al recital al teatro di prosa, ci sembra comunque un successo di cui andare fieri.

Fin dalla nascita, L’ultima luna – in origine chiamata significativamente Teatro e cascine – è stata articolata secondo una struttura particolare, già collaudata all’interno di un certo tipo di teatro d’avanguardia: il festival è itinerante e si avvale di ben 26 architetture in cui i 32 spettacoli del 2014 sono ospitati e alle cui specificità vengono adattati. Questa formula, che presenta non poche difficoltà logistiche e tecniche, si rivela vincente in quanto coinvolge il territorio in un fermento ormai molto sentito dagli abitanti, sopratutto quando gli spettacoli si prospettano inconsueti, accattivanti novità.

E’ questo il caso del Sogno di una notte di mezz’estate, una coproduzione di BIS – Brianza in Scena (che riunisce le compagnie Teatro Invito, Scarlattine Teatro e Piccoli idilli) in scena il 2 e 3 settembre a L’ultima luna. La commedia ingenera grande entusiasmo nel nutrito pubblico grazie alla curiosa combinazione di una rappresentazione itinerante all’interno di un festival esso stesso itinerante. Lo spassoso gioco metateatrale del testo viene magistralmente reso soprattutto dal personaggio di Bottom, interpretato da Stefano Bresciani.

Si applaude innanzitutto la più nota commedia di Shakespeare, un meccanismo perfettamente congegnato dove ben sette trame s’intersecano in un gioco di sovrapposizione tra onirico e reale; si apprezza la resa linguistica curata da Luca Radaelli che nel duplice ruolo di traduttore e regista – nonché direttore artistico del festival – è capace di mantenere in italiano la rima e la metrica del testo originale regalandoci peraltro alcuni raffinati divertissement molto apprezzabili come la resa di Bottom in “signor Fondelli, stalliere”; si gode della bellezza del contesto che ospita lo spettacolo, il vasto parco di Villa Greppi (sede del Consorzio Brianteo) che per l’occasione svela alcune delle aree boscose abitualmente chiuse al pubblico. La più evidente peculiarità della messa in scena è la formula itinerante, un viaggio dentro l’opera shakesperiana che talvolta sembra una vera e propria visita guidata attraverso il dramma, reso giocosa festa popolare in cui alberi, sassi e sentieri acquistano nuova dignità di spazio scenico.

Gli spettatori vengono privati della rigida e rassicurante separazione tra palco e platea, senza poltrone numerate dove sedersi comodamente devono seguire gli attori nel progredire delle scene, una corsa ponderata il cui dinamismo è evidenziato dalla fisicità degli attori liberi di muoversi nello spazio aperto. Per entrare nello spirito della pièce e per capirne il senso profondo e originario che lo spettacolo cerca di far emergere è necessario accettare, condividere e infine vivere questo modus per due ore: attori che toccano, fendono la folla e abbracciano gli astanti, camminate nel bosco durante lo spettacolo, momenti per riflettere sulla scena appena vista mentre i più piccoli tra gli spettatori corrono intorno alla processione. Il pubblico entra a far parte dello spettacolo, lo correda e completa confondendosi col teatro stesso – inteso come luogo, ma anche come tempo, di finzione; esattamente come in un sogno, ponte tra il vero e l’immaginifico.

Questo allestimento del Sogno di BIS prevede fondamentalmente due tipi di scenografia a corredo dello spettacolo: la signorile costruzione della villa a rappresentare Atene e la selva abitata dalle creature fatate. Esse sono le prime ad accogliere gli innamorati ateniesi persi nella foresta, metafora della follia degli umani sentimenti e del groviglio di passioni intersecate da Shakespeare: l’amore felice ma fragile di Lisandro ed Ermia, vagheggiata da Demetrio che non corrisponde l’amore infelice di Elena. Tra le fate spicca Puck il buffone, interpretato efficacemente da Francesca Cecala, attrice in grado di rendere la follia e la giocosa fedeltà del folletto con pose svolazzanti e un azzeccato farfugliamento che assurge a cifra comica ma inquietante del personaggio. Tutta questa corte di personaggi gimcana intorno al pubblico appena congedato dalla reggia di Teseo ed entrato nella foresta proprio attraverso un ponte, un simbolo come abbiamo visto assai significativo.

Tuttavia al di là dell’importanza del luogo scenico, le cui peculiarità sono accuratamente studiate, sfruttate e in definitiva fondamentali per la riuscita della messa in scena, ci sono anche altri aspetti interessanti da sottolineare a livello di regia. In primo luogo la scelta degli interpreti che riprende un’interpretazione dell’opera secondo cui i personaggi di Teseo e Oberon e di Ippolita e Titania, signori di due mondi antitetici e complementari, sono interpretati dai medesimi attori; la novità è qui rappresentata dalla scelta dei costumi, laddove il bianco simboleggia il formalismo ateniese e il nero delinea i selvaggi istinti del mondo onirico delle fate.

A completare questo quadro animalesco, costellato da riferimenti a sensualità e sessualità che la regia e la recitazione non nascondono affatto, è messa in evidenza un’impostazione decisamente classica. Al punto che il riferimento al teatro antico diventa trait d’union tra la magia del sogno e la miope concretezza della forma mentis ateniese, basata sulla sterile logica del pensiero umano. Così il prologo che vede Demetrio accusare Lisandro per l’amore che Ermia gli riserva si sviluppa in modo frontale e ricorda la resis del teatro greco. La scelta di utilizzare un vero e proprio coro di danzatrici/cantanti per interpretare le fate al seguito di Titania rispecchia la volontà degli artisti di collegare enigmaticamente i due aspetti dell’esperienza umana: fantasia e realtà oggettiva. Allo spettatore attento ciò suona come una sorta di rassicurazione: gli slittamenti di senso non sono veri ma fanno parte della finzione teatrale.

Ma l’angoscioso mistero, molla di tutta la pièce, resta intatto, caro pubblico. Se la finzione si confonde così in profondità con la realtà quotidiana, tanto da portarvi a Villa Greppi, siete certi di potervi fidare delle parole dei teatranti che state applaudendo?

Fino al 7 settembre, programma su teatroinvito.it