20141011-011042.jpgSALVATORE MARGIOTTA | Raccontare un evento della portata di Altofest è impresa ardua, cosa per nulla semplice da ricostruire in poche battute. Questioni relative al dono degli spazi privati, alle residenze site-specific che sconfinano nel quotidiano familiare, all’apertura e scoperta di territori quasi inesplorati (non esagero! Lo dico da napoletano che per la prima volta si è trovato in luoghi e spazi cittadini che gli erano sconosciuti), ad una cellula-comunità che performance dopo performance vede allargare il suo raggio d’azione facendo sì che pubblico e artisti trovino sempre un contesto – scoprendosi spesso seduti uno affianco all’altro – all’interno del quale dialogare concretamente, sono motivi di dibattito che meriterebbe più ampio spazio di presentazione e discussione, affrontati – magari – da punti di vista più legati alla sociologia, quando non all’antropologia, ma qui proveremo a raccontarvi Altofest con occhio più specificamente teatrale.
La rassegna organizzata da TeatrInGestazione per il quarto anno consecutivo ha visto susseguirsi – dal 22 al 27 settembre, dalle 11.00 alle 24.00 – in una moltitudine di spazi diversi (case, cantine, terrazze, autorimesse, studi fotografici, etc.) performance eterogenee “giocate” su molti dei registri che caratterizzano il Contemporaneo: dalla danza alle azioni, dal film in digitale a tentazioni sensoriali, passando per il concettuale e il teatro-teatro, frontale, di “parola”.
Tra le performance di matrice fisico-gestuale estremamente interessante ci è parso Body Language. Con l’obiettivo di scoprire come il corpo è in grado di modificarsi in relazione ai diversi contesti environmentali, la coreografa Edan Gorlicki ha presentato un lavoro che trova nell’equilibrio sempre in bilico tra poderoso controllo tecnico dei movimenti – a tratti impercettibili, a tratti vorticosi – e una fragilità intima ed emotiva il punto nodale della partitura drammaturgica. Un solo che nello spazio raccolto di un soggiorno o sterminato di una cava di tufo è in grado allo stesso modo di trasmettere potenza e vulnerabilità.
La programmatica messa in crisi della perfezione tecnica fredda e distaccata è al centro di Un certain Rythme di RIDZcompagnie. Musica electro-progressive, coreografia energica, movimenti a scatti, leitmotiv gestuali permeano il lavoro della compagnia capitanata da Simonne Rizzo. La partitura – frutto di ampi innesti d’improvvisazione – s’incentra da un lato su un senso del ritmo liberatorio e dall’altro sul tema coreografico del “duo” di danzatori che intrecciano i propri movimenti formando e scindendo costantemente la “coppia” staccatasi dal gruppo di quattro. Un’opera contagiosa che ha visto gli interpreti danzare tra il pubblico che occupava lo stesso spazio (casa, cortile, negozio vintage) sfruttato dai danzatori.
Più legati ad un teatro di scrittura dell’immagine è il lavoro di Compagnia Pietribiasi-Tedeschi, Kalsa Compagnia e Opera retablO.
Ispirato all’opera di Julio Cortàzar Bios di Compagnia Pietribiasi-Tedeschi vede lo spazio diviso in due metà distinte, servendosi di una parete separatoria composta da radiografie. Il pubblico posto in ambo le platee assiste a due azioni diverse ma “esistenzialmente” complementari, sorrette da testi recitati da voci off e silhouette che si muovono lentamente.
Me&Me di Kalsa Compagnia è imperniato sul tema drammaturgico “l’altro come emanazione di sé”. L’impianto spettacolare segmenta lo spazio completamente buio attraverso geometriche finestre di luce in cui una coppia di performer-officianti dà vita a una partitura danzata che nella prima parte divide il duo in individualità per poi ricomporlo nella seconda.
Ispirandosi al motivo dell’idolo, declinato sul versante dell’arte massmediaticizzata, Opera retablO nel suo I hate this Job (studio di fatto già molto compiuto) mette in scena lo smontaggio dei meccanismi linguistici della performance visiva. L’amplificazione e moltiplicazione degli elementi iconici è data dall’impiego di diversi supporti tecnologici quali PC, tablet e smartphone che innescano un meccanismo di cortocircuito tra le immagini mostrate e i momenti live, conferendo all’intero lavoro la struttura di labirintico simulacro metariflessivo. La solennità ritualistica di alcuni momenti viene letteralmente incrinata da una ghignante e affilata ironia scarsamente presente, altrove, in opere dello stesso genere.
Phoebe Zeitgeist Teatro è invece la proposta più teatrale di Altofest 2014. La compagnia milanese ha messo in scena in uno degli spazi più suggestivi, una cantina in tufo di un’abitazione, Adulto opera che propone come unicum il montaggio di testi tratti da Pasolini, Morante e Bellezza con la regia di Giuseppe Isgrò. Trait d’union drammaturgico è l’esperienza omosessuale dell’unico personaggio in scena raccontata come in uno stationendrama a tre tappe. Calato in un scena essenziale – composta da poche fila di luci a led, registratori a cassette, oggetti legati al mondo dell’infanzia insabbiati in mucchi di terra strategicamente sistemati – Dario Muratore regala un’interpretazione frenetica, carnale, martellante che ha il pregio di esaltare il cocktail grottesco e tragico del montaggio testuale.

Si chiude qui il nostro racconto parziale sull’ultima edizione di Altofest. Con una certezza: Altofest 2015 – per stessa ammissione degli organizzatori in occasione del simposio conclusivo – è già iniziato.