Carmen
Fotografia di John Hogg

SILVIA TORANI | La danza si è liberata da tempo della classica gerarchia che rendeva l’espressione corporea sottomessa all’esigenza di un racconto. Eppure il raggiungimento di una condizione di assoluta libertà creativa beatamente priva di norme ha rischiato spesso di condurre a un divieto implicito (e per questo ancora più pericoloso): il rifiuto a prescindere di una struttura narrativa, una negazione a tutti i costi di qualsiasi elemento che non fosse puramente autoreferenziale.

Dada Masilo rompe con coraggio l’embargo delle storie. Non teme di banalizzare la propria ricerca coreutica con l’illustrazione di una vicenda e l’evocazione di personaggi del passato. La rappresentazione costituisce per lei, più che un rischio, una possibilità, e lo ha dimostrato alla scorsa edizione del Romaeuropa Festival con Swan Lake, sua personale rielaborazione de Il lago dei cigni. Il racconto recupera la funzione ancestrale di strumento per rielaborare desideri e ossessioni dell’inconscio collettivo, i cui archetipi dialogano produttivamente con il presente senza sclerotizzarlo nel cliché. Con Carmen la giovane coreografa sudafricana torna così a confrontarsi con il passato ballettistico europeo, sfruttando la capacità della danza di raccontare storie attraverso le potenzialità espressive del movimento.

Come per il suo precedente lavoro, anche in questo caso si tratta solo dell’ultimo anello di una catena dalla lunga storia coreografica, teatrale, letteraria e cinematografica. Ma l’operazione di Dada Masilo ha qualcosa di diverso, intende prendere un classico e interrogarlo, senza presunzioni intellettuali o complessi di sorta, domandandosi semplicemente chi sia Carmen oggi. La partitura originale di Georges Bizet, la musica per balletto di Rodion Ščedrin ed estratti dal Lamentate di Arvo Pärt si intrecciano con il battito delle mani e le vivaci emissioni vocali degli interpreti di una danza che non ha paura di ibridarsi con la mimica, abbondante ma sempre autentica e presente.

I passi a due e gli sviluppi coreografici di gruppo non si limitano a rovesciare le tradizionali dinamiche di potere tra i sessi, ma indagano i loro stessi scontri interni, offrendo lo spunto per una riflessione sulla componente animale delle relazioni umane. La figura del cerchio inscrive un carosello di passioni mai soddisfatte, e si impone nel finale come arena del duello tra il torero Escamillo e un Don José trasfigurato, trasformato in toro dal divampare incontrollato della propria ossessione.

La danza tradizionale africana si sposa con il balletto classico e il flamenco per raccontare uno dei primi ruoli femminili a rivendicare il diritto di autodeterminarsi, di scegliere con libertà il proprio cammino e seguirlo fino alle sue estreme conseguenze. Nessun sentimento pietistico per lei; non è una povera traviata, pentita e incolpevole, che morendo suscita compassione in quella società borghese di cui espia i peccati. Carmen si assume tutta la responsabilità delle proprie scelte di vita. Non implora, non chiede perdono né comprensione, ma solo una lucida testimonianza. La sua morte diviene nello spettacolo di Masilo “morte dell’anima”, assassinio morale compiuto ferocemente per mezzo della violenza sessuale. Il racconto non funziona da conciliante catarsi perché quello di Carmen non vuole essere ridotto a sacrificio di una vittima. E la fine della storia lascia invero più questioni aperte di quante ne chiuda.