ELENA SCOLARI | 01-Foto-di-Neige-De-BenedettiFreak Antoni, leader demenziale dell’irripetibile gruppo Skiantos, cantava Sono uno skianto. Scherzava.
Al Teatro Franco Parenti di Milano vediamo l’ultimo spettacolo di Filippo Timi, Skianto, e il giorno dopo leggiamo volentieri il parere di Diego Vincenti su milanoinscena, il critico trova che dopo l’ingorda scorpacciata del Don Giovanni Timi sia tornato più pulito, si parla anzi di “purificazione” e di un ritorno allo stile de La vita bestia. Anche noi ritroviamo alcuni elementi di allora: la parlata umbra, le gite scolastiche alla cartiera di Fabriano, le note biografiche di una vita periferica e regionale, ma ci sembra che questi umili e rispettabili racconti siano fortemente a disagio in questo contesto scenico che mescola luci color degli Sguish, videospezzoni di Candy Candy, videospaccate di Heather Parisi, terrificanti videogattini da youtube, versioni eleganti di brani di Britney Spears, apparizioni di Timi in guisa di Miominipony rosa.

Lo spettacolo racconta di un bambino nato handicappato che non riesce a parlare e si muove a fatica, il personaggio però ci parla, ci dice cosa pensa e soprattutto cosa pensavano, erroneamente, di lui che non poteva esprimersi. Lo fa con ironia, eccome, la tragedia è mitigata, troppo e dove non lo è rimane una riflessione solo abbozzata, per non appesantire le risa di un pubblico che manco gli One direction. Abbiamo il sospetto che Timi, un bravo attore, sia risucchiato dalla propria macchietta. Questo lavoro è ancora una mariconada, siamo giusti. Forse un po’ meno del solito? Forse. Comunque una mariconada.
Le prove della bravura e della misura recitativa le abbiamo dal cinema, dove Timi si lascia dirigere e arginare, a teatro le briglie e le trecce sono sciolte come a un miominipony brado.

Ci vien fatto di pensare a Daniele Timpano, un altro bravo attore quarantenne e al suo Ecce robot (2008) che ci piacque meno dei suoi spettacoli successivi e che si reggeva su un generazionale richiamo ai supereroi anni ’80 dei cartoni animati giapponesi. Mazinga, Goldrake e Jeeg robot ne erano i perni, premessa dichiarata e usata per fare brillante autocritica sui ragazzi cresciuti davanti alla tv. L’affinità anagrafica tra i due non è ininfluente, segna quello che tutti i nati nei ’70 ricordano, inevitabilmente, ma da cui forse vorrebbero, adulti, affrancarsi.

Timi compare su una cyclette, appeso a fili come il burattino Pinocchio (poi vuole anche spiegarcelo) in una scena arredata con attrezzi da vecchia palestra seminterrata e chiude dialogando con la fata turchina in una richiesta di morte liberatrice.
Vincenti gli consiglia di non buttarla in caciara, noi di non buttarla, la bravura.

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