FRANCESCA GIULIANI | Strega. Puttana. Sola, un po’ disperata. Madre ossessiva. Figlia svuotata di desiderio. Prototipi di donna. Ieri? Cechov racconta. Oggi? Dandy. Ubriacone. Orso. Faccendiere insoddisfatto. Padre pazzo. Figlio inappagato. Prototipo di uomo. Ieri? Cechov racconta. Oggi? Attraverso le sembianze di questi personaggi si muovono gli attori di Senza trama senza finale, progetto della Compagnia Macelleria Ettore, visto in forma di studio presso il Teatro Dimora – L’arboreto di Mondaino.
La scena è indefinita. C’è un prato con margherite e un tronco spezzato. Ci sono, come rimembranze barocche di un’epoca già decaduta, una poltrona e un divanetto fin de siècle a far da corredo. C’è un lampione, in un angolo, e un ombrello chiuso, dall’altro. È un rettangolo astratto in cui sostano gli attori, una sorta di déjeuner sur l’herbe mancato: si sventolano soffrendo l’afa, si guardano incerti, sospirano increduli, sbuffano colmi di un qualche lavoro che nel non fare sembra interminabile, aspettano forse qualcosa. È in quest’attesa che si muoveranno per tutto lo spettacolo: l’attesa di un cambiamento che non avverrà perché la staticità e le parole li schiacciano o perché in fondo non sembra così necessario. In queste vite mediocri senza certezze ma neanche speranze, i molteplici personaggi di questa terribile e a tratti eterna commedia umana si ripiegano dentro loro stessi, in quel mal di vivere in cui ogni sapere e questione si spezza.
Non accade nulla in scena se non ragionamenti che circolano attorno a quel tema così universale da racchiuderne infiniti: l’amore. È un amore sempre malato, o meglio insoddisfatto, a tratti compassionevole, che si fluidifica in tutti i suoi vari aspetti e rapporti: la coppia, la famiglia, l’amicizia, il lavoro. Non ci sono vincitori né vinti in questi brandelli di racconti, non ci sono, come scrive Cechov stesso, “rivoluzionari, Alessandri Magni o quanto meno un onesto capo della polizia, come Leskov…”, e prosegue: “Ma dove volete che vada a prenderli? Noi siamo uomini di provincia, abbiamo città senza selciati, campagne povere, gente stremata… Da giovani cinguettiamo felici e contenti, ma verso i quarant’anni siamo già vecchi e pensiamo alla morte…”. Non possono esserci eroi che discutono di quisquilie e l’aspetto più tragico è proprio questo stare, questo parlarsi addosso, questo chiacchierare su temi così profondi in modo altrettanto audace. È l’apatia, quell’apatia così potente in scena da rendere assorti quegli spettatori che vivono paradossalmente nello stesso orizzonte cechoviano, un mondo mosso da chiacchiere e attese.
Spettatori di se stessi e del loro stare in scena, gli attori entrano ed escono da quel rettangolo. Aspettano il loro racconto, il nuovo personaggio e aspettando commentano, traducendo nel volto e nel corpo quell’ironia a tratti grottesca di Cechov, i discorsi di chi è in scena. Due sono le coppie che si muovono per di più all’unisono per completarsi a tratti in quartetti o terzetti. In scena sembrano esserci ruoli fissi dai quali è impossibile scappare: c’è il “vecchio” prepotente, pazzo, quasi ossessionato dalla compagna “giovane”; ci sono i “giovani innamorati” che s’incontrano quasi segretamente per un amore che non sembra sussistere; c’è l’attrice finita, la moglie che tradisce il marito illuso.
C’è un costante guardare l’azione restando attivi fino a quel “Andatevene! Andatevene Tutti!” gridato sul finale. In scena non restano che alcuni oggetti distesi sul prato raffigurando una figura di magrittiana memoria.