ALESSANDRA CORETTI | Calzature comode, elasticità visiva, mappa a portata di mano, una minerale ghiacciata. Questo il kit utile per addentare i ritmi di Alto Fest International Contemporary Live Arts (Napoli, 8-12 luglio). Cinquantadue location per centosette artisti è la grandezza con cui si definisce l’edizione in corso della kermesse che, in linea con lo spirito napoletano, è un miracolo continuo, un dono capace di rinnovarsi, per il quinto anno consecutivo, senza alcun tipo di finanziamento, ma esclusivamente grazie alla testardaggine di TeatrInGestAzione. Il nostro tour, tra i vari luoghi prestati all’azione performativa, comincia giovedì alle 17.30: immediatamente tangibile il sentimento di fondo che muove Alto Fest, innescare un risveglio emotivo dei luoghi e delle persone che vi entrano in contatto. Il festival infatti è concepito come un organismo relazionale totalizzante che ha fatto della filosofia del dono il suo mantra. Rimane in filigrana, ma affiora nelle politiche organizzative adottate da Alto Fest, il suo principale obiettivo: operare una rigenerazione urbana ed umana attraverso gli strumenti culturali. La sensazione è che ad Alto Fest piaccia giocare sulla sottile soglia che divide interno ed esterno, dimensione pubblica e privata, e si diverta così a riscrivere le logiche di questo scambio, dando valore in maniera inusuale al “rapporto confidenziale” che lega l’opera al suo spettatore. Così abitazioni, negozi, giardini, chiese, diventano i palcoscenici temporanei, privilegiati, per interventi artistici interdisciplinari, mentre una rete ospitale di cittadini offre un posto letto agli artisti e agli operatori culturali coinvolti nell’evento.

 Tentiamo di restituire una polaroid del festival, ripercorrendo le nostre prime tappe. Primo pit stop per Cage (assolo del progetto Traces of Casuality) di Katie Duck. La sessantenne di Amsterdam – che si esibisce all’interno della Chiesa San Girolamo delle Monache – utilizza il suo corpo simulando lo strappo violento fondamentale per svuotare l’anima; un imperativo impresso sul suo petto custodisce il senso di questa liberazione: feel! La donna gioca con un abito nero elasticizzato emblema di costrizione, difatti, per disfarsene chiederà aiuto al pubblico. Lo lascerà cadere in vita per poi sfilarlo completamente e avvolgerlo sul capo. La fisicità di Katie Duck, minuta e scolpita, spinge a fare i conti con le paure per liberarsene, togliendole via come un vestito che limita il corpo restringendolo. Attraverso una serie di domande e di disegni corporei, mutuati da studi sull’agorafobia, la performer vorrebbe farsi “promotrice” di una socialità resiliente. Interessante lo iato creato tra la biografia della protagonista: una donna avanti negli anni, che ha allevato da sola un figlio, che vive da single la sua maturità, e il luogo scelto per la performance: una chiesa. Il contrasto tra le peculiarità del luogo e la biografia della performer stimolano interrogativi e sguardi che mandano in cortocircuito le tradizionali categorie di pensiero. Il corpo come dispositivo epifanico è l’idea di base di Akis-Calendar della coppia italo-belga Fabris | Mansour. La performance, ideata ad hoc per Alto Fest 2015, ci catapulta subito in una dimensione onirica. Un numero considerevole di gradini conduce nel giardino di Casa Cremona/Tagliatela perimetrato da candele e abitato da una piscina gonfiabile colma d’acqua. Il pubblico è lasciato libero di appropriarsi di un punto di vista muovendosi liberamente nello spazio, mentre una voce fuori campo racconta il mito di Galatea, come una tessitura di suggestioni. Perdiamo più volte di vista il filo conduttore della performance ammaliati da una serie di tracce disseminate lungo il percorso dell’esibizione che si trascina anche all’ interno dell’abitazione e poi sul rispettivo terrazzo, con vista mozzafiato sulla città. Liberiamo i sensi in un viaggio estetico stimolato da input visivi e sonori che avvolgono il nostro immaginario. Un approccio totalmente diverso richiede la performance firmata da Roberto Corradino / Reggimento Carri Teatro, NAH NAH NAH A HEART SONG FOR YOU // WORKIN’ ON MANNOYO SINGER. Corradino in questo lavoro – per un unico spettatore alla volta – mette in scena un tentativo di seduzione. Tra gli assillanti odori e colori di un negozio di saponi artigianali obbliga lo spettatore ad un tête-à-tête. Quello che si consuma è un rapporto di conoscenza forzato tra due sconosciuti. Con disinvoltura e un paio di occhiali neri, che scherma i suo occhi, il performer invade il nostro spazio intimo senza pietà. Ci prende per mano, ci abbraccia, ci scioglie i capelli, ci invita a ballare con lui e poi ci fa sedere sulle sue gambe, riusciamo a sentire la consistenza del suo fiato e il suo petto villoso. C’è un senso di prossimità continua tra performer e spettatore, che provoca tutti gli imbarazzi del caso. Concludiamo questo prima carrellata su Alto Fest con Pocket Soundscapes della messicana Ana Paula Santana, la giovane sound artist propone un lavoro ispirato a I am sitting in a room di Alvin Lucier. L’intervento sonoro si innesta nello spazio di Bottega ‘E Pappecci, attraverso circuiti elettrici e microfoni a contatto, con cui ispezioneremo lo spazio che ci ospita. Lo spettatore è invitato a muovere i microfoni sul pavimento come fossero pedine di una scacchiera, per indagare la trama di fondo che lega i suoni all’ambiente che li contiene. Dopo un momento di iniziale timidezza ci lasciamo travolgere dalla curiosità e diamo il via all’esplorazione.

Il primo appuntamento con Alto Fest termina qui con una buona dose di entusiasmo, nonostante il ritardo di mezz’ora sulla tabella di marcia con cui alcune performance hanno avuto inizio (un disagio per un festival itinerante). La percezione, però, è anche quella di dover entrare nel flusso della manifestazione con una predisposizione mentale nuova, prendendo atto di essere parte di un esperimento immersivo che non contempla un tema specifico, piuttosto chiede al pubblico di non rimanere tale, ovvero di rimodulare la propria presenza di fronte ai luoghi, agli interventi artistici, all’idea di cultura e al suo modo di fruirne. Toneremo nelle prossime ore a perderci tra le molteplici dimensioni che questo evento è capace di farci vivere, tentando di abbandonare le remore e ponendoci, esclusivamente, in una dimensione di ascolto.

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