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MARTINA VULLO | “Il mistero del mito deve essere sperimentato, venerato; deve entrare a far parte della nostra vita”.

Dalla frase del filologo ungherese Károly Kerényi (citata nelle indicazioni di regia), Andrea De Rosa parte ancora una volta, per la costruzione di una sua messinscena. Dopo l’Encomio di Elena, Le troiane ed Elettra (solo per citare alcuni spettacoli di prosa, fra le opere che nel suo eclettico repertorio mettono al centro la mitologia) è la volta di una Fedra senechiana che si risolve in una sperimentazione di carattere totale.

Com’è ben noto, non ci sono divinità nella tragedia di Seneca. Eppure, la prima ad esordire sul palco dell’Arena del sole (dove lo spettacolo è andato in scena dal 2 al 6 Dicembre) è proprio una Dea – Anna Coppola –  vissuta e spumeggiante, con i capelli grigi e il tailleur di velluto rosso, che adagiata su una sedia-sgabello, si presenta col nome sia di Venere che di Afrodite, introducendo l’antefatto al pubblico, fra un sorso e l’altro del suo drink.

L’ira di Venere/Afrodite verso l’incorruttibile Ippolito (figlio di Teseo, seguace di Diana/Artemide e ostile ai principi della Dea dell’amore) farà si che la matrigna Fedra (sposa di Teseo, sceso nell’Ade), venga animata da una passione fuori controllo e a lui rivolta, che avrà il carattere di una malattia e si farà destino.

A delineare la vicenda, saranno gli “io” monologanti della tragedia senechiana: oltre alla già presente in scena ed indicata in didascalia come “una Dea”, ci sono Fedra (Laura Marinoni) ed Ippolito (Fabrizio Falco) che sviscerano sé stessi e le proprie pulsioni dentro una stanza di cristallo, dove il colore delle luci segue il loro avvicendarsi.

I canti dei grilli e il rumore delle fiere notturne (riferimenti alla Dea della caccia) ed il fischiare di Eolo (reso dalla Dea in scena, che soffia sul microfono), ben si armonizzano ad un quadro concettuale apparentemente euripideo, nel quale il fato e la devozione, sembrano costantemente avere la meglio. Anche l’immagine di Teseo – più in ombra alla sinistra – con il suo muoversi fra le aste, i lumini e le maschere vuote dell’oltretomba, è un elemento che compartecipa di questo climax.

Ma cosa dire della Dea, che avvicinandosi alla donna, trasforma il canto armonico di lei, in un lamento irregolare e dissonante?

Sarà la suggestione di Kerényi (autore di una fra le più interessanti monografie dedicate a Dioniso), il caos che la Dea crea con le sue azioni in scena, o questo sorseggiare da un calice che ci fa venire in mente Bacco. Sarà per la smisuratezza delle risate o per il suo fumare (emblematico del vizio), o chissà, forse sarà semplicemente il fatto di essere a teatro: quel luogo che per definizione rimanda all’affascinante archetipo di questo Dio, a farci credere di essere di fronte alla sua incarnazione.

È su questo “credere” che De Rosa gioca, suggerendoci poi di non lasciarci suggestionare: il personaggio di “una ragazza” che dialoga con Fedra, le ricorda che non esistono gli dei! È l’uomo l’artefice delle proprie passioni, e quando, e se, riesce a rendersene conto, solo allora, può imparare a controllarle.

Il discorso della ragazza, è però una nota piuttosto stonata, in un’orchestrazione generale in cui gli Dei rimangono centrali: tanto più che la vendetta annunciata da Venere/Afrodite nell’antefatto, si compie inesorabilmente.

I toni allora si innalzano insieme all’amplificazione, mentre un inorridito Ippolito fugge alle seduzioni di Fedra ed alla sua immoralità. E ancora echi ed altezze di volumi restituiscono la rabbia di Teseo che si getta a terra disperato, quando tornato dall’Ade, apprende da una vendicativa Fedra, che suo figlio l’ha violata.

L’orrore che nella tragedia greca dovrebbe anticipare la catarsi è mitigato dall’elemento del dubbio: perché – si chiede Ippolito – di fronte all’empietà da lui subita, gli dei non manifestano la propria ira?

Certo il regista non ci risparmia scene cruente: quei tronchi che nella tragedia si riempiono delle parti del corpo di Ippolito, brutalmente massacrato, sono perfettamente resi dalle aste dell’Ade, da cui pendono piedi e mani del defunto.

Il dubbio sul ruolo degli dei, rimane anche dopo il suicidio di Fedra, che prima di morire racconta la verità al marito. Come del figlio restano pezzi di corpo, della donna solo uno sprazzo di sangue.

Ma non c’è assoluzione per il padre che ingannato ha ucciso il proprio figlio e che vorrebbe ora morire. Gli dei, davanti alle sue suppliche non ci sono più e alla tragedia dell’accaduto, si unisce quella di una fede tradita.

È beffeggiante a conclusione la voce della Dea che svela l’inganno: “Io non sono niente… Non ci sono Dei in Seneca. Il Dio è in te, è dentro di te e come tu lo tratti, egli ti tratta”