MARTINA VULLO | Se, come molti sostengono e come siamo convinti dovrebbe essere, uno spettacolo non si esaurisce nel tempo della rappresentazione, ma vive anche nel prima e nel dopo facendo parlare di sé, la trilogia di Istruzioni per non morire in Pace, respira già da un anno buono.

Il trittico si inscrive infatti all’interno del progetto Carissimi Padri promosso dalla fondazione Ert Emilia Romagna Teatro, che in occasione del centenario della prima guerra mondiale (2014-2018), ne ha approfondito la tematica con laboratori, letture e lezioni-spettacolo, i cui principali temi come pezzi di un grande puzzle, hanno trovato unitarietà nei tre spettacoli finali andati recentemente in scena al Teatro Storchi.

L’ideatore delle pièce è Paolo Di Paolo, che ha presentato in questi giorni il volume omonimo nelle librerie modenesi. La regia è stata invece curata da Claudio Longhi.

Nove attori in scena: Donatella Allegro, Nicola Bortolotti, Michele Dell’Utri, Simone Francia, Olimpia Greco, Lino Guanciale, Diana Manea, Eugenio Papalia e Simone Tangolo. Ne citiamo tutti i nomi perché il contributo che hanno dato a questo progetto di “teatro partecipato” (sempre proteso alla relazione con la comunità) è stato essenziale: al lavoro di performer, hanno alternato quello di conduttori per alcuni dei laboratori ed è loro pure il merito di aver suscitato la curiosità del pubblico, con immagini, piccoli slogan e video simpatici, diffusi nei propri canali social.

Nove è anche il numero delle ore complessive degli spettacoli (tre per ciascun episodio) e se di fronte a una tale durata, qualcuno potrebbe sospettare che, per non morire in pace, si rischi di morire di noia, gli toccherà ricredersi.

Non che lo spettacolo risulti “leggero” (è anzi molto mentale) e non lavora sul principio di immedesimazione del pubblico nei personaggi ma sulla ricerca di un punto di vista esterno, quasi più razionale, di fronte alla panoramica delle vite, che come frammenti, affiorano per poi essere travolte dallo spietato gioco della guerra.

Non manca comunque la nota della leggerezza, assicurata dalla verve ironica che in più punti diventa elemento centrale della rappresentazione, con le sue luci sfavillanti in avanscena ed i clowneschi showman che si esibiscono in frac. Fra musiche di fisarmonica e di pianoforte, colpi di cabaret e dialoghi buffi, si fanno spazio carte geografiche e venditori di gazzette che (con i volti mascherati e costumi d’epoca) fra la platea e le balconate, annunciano a gran voce le tragedie umane; non ultima la sciantosa prostituta, vestita come una vedette a rievocare l’atmosfera da caffè chantant, che conferisce allo spettacolo l’aria di una grande beffa.

A ben pensarci l’eclettismo degli elementi di intrattenimento, insieme all’abolizione della quarta parete, alla tematica sociale e all’intenzione di stimolare una coscienza critica nello spettatore, ci riportano al teatro epico (del resto non a caso fra i progetti di Carissimi Padri troviamo una pièce dal titolo: “Molte cose sono in una cosa”- Uno straniamento brechtiano).

Gli episodi risultano in continuità fra loro, ma posseggono una propria autonomia se guardati singolarmente. Ad accomunarli è l’alternanza fra i frammenti individuali e momenti di coralità. Anche la scenografia (dinamica ed articolata) rimane tendenzialmente uguale.

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Ph. Luca Del Pia

. Patrimoni

Il senso del primo episodio è sintetizzabile nella scena finale, dove individui profondamente diversi per provenienza, ideologia e fascia sociale, cantano l’inesorabilità del conflitto che ne mescola i destini. L’immagine è inquietante un po’ come il suono delle percussioni di alcuni membri della pseudo-orchestra, probabilmente ignari delle spettrali maschere che indossano… Qualcosa nella loro immagine ce li fa associare a fotogrammi de La classe morta, ma privati della presenza di fantocci.

I diversi personaggi acquistano profondità e completezza col progredire della rappresentazione: sono pittori, attori, prostitute/spie, industriali, generali, clerici ed operai stanchi, accanto ai quali si scorgono figure note, ferocemente ironiche (come il vecchio buffone Freud che disquisisce di soldi e merda seduto sopra un water), o semplicemente tragici come il neutralista Jean Jeures, assassinato nel 1910. Non mancano intarsi con la storia di Castorp, de La montagna incantata di Thomas Mann.

Non di rado si ricorre a proiezioni di fotografie che come dentro a uno stereoscopio scorrono sulla parete frontale. Altre suggestioni che ci trasportano nella belle époque (finita con l’avvio del conflitto) sono i costumi da bagno in stile tuta dei primi decenni del ‘900, gli allora entusiasmanti film sonori e lo stupore di due giovani per il passaggio della cometa di Haley. Di un’epoca così serena, a chi subirà la grande guerra, rimarrà solo il ricordo.

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Ph. Luca Del Pia

. Rivoluzioni

I personaggi rivendicano la volontà di non morire in pace: dopo il rammarico del letterato tedesco Georg Heym, che si cruccia di essere scomparso troppo presto e troppo in pace (nel tranquillo 1912, mentre stava pattinando), il desiderio di morire in grande è rivendicato anche da Berto (giovane pittore bohèmien).

Lo smarrimento insito nel personaggio che si arruola nella campagna in Africa per colmare un proprio vuoto esistenziale, ci riconduce (come suggerisce lo stesso attore Simone Tangolo), al più attuale disagio di certi giovani che ancora oggi si lasciano morire con l’adesione al radicalismo delle organizzazioni terroristiche.

Il passato nello spettacolo odora sempre di presente: le istruzioni messe in scena, trovano infatti il loro senso nel servirsi della storia come di uno specchio, che per somiglianza o per contrasto, permetta all’uomo di ragionare su di sé.

In questo episodio si parla del colonialismo (con l’annessa storia e il triste epilogo di Salgàri) e della conferenza socialista a Vienna del 1915. Torna lo strambo Freud che disserta sulla melanconia e il suicidio prima di fallire in una goffa tentata impiccagione. Al solito intarsio con il romanzo di Mann, segue l’apparizione della grande Sara Bernhardt: una piccola anticipazione sulla tematica del teatro.

L’argomento principe è però quello delle rivoluzioni: scientifiche, come la scoperta dell’ipnosi a cui ci si riferisce a lungo, ma anche politiche (pensiamo all’idealista Trotsky che parla di rivoluzione permanente senza sapere che sta per morire).

L’ignaro compiacimento dei nostri personaggi, viene spezzato anche qui dal concertino dell’orchestra macabra, che canta della moralità, dell’etica e dell’eroismo umano: piccole cose di fronte alla fame e alla miseria imposte dalla guerra.

.Teatro

Gli orologi, onnipresenti nella scenografia, mettono agli spettatori l’ansia che fin ora è mancata ai protagonisti della pièce. Se strutturalmente rimane l’alternanza di diversi quadri, c’è una maggiore compattezza rispetto agli episodi precedenti.

La famiglia Gottardi è mostrata in un interno nel giorno del 23 Maggio 1915. Sembra il tipico soggetto di una commedia borghese e per la diversità dei componenti, mette in risalto i differenti modi di intendere il conflitto: i fratelli industriali Fernando e Marcello sono con la loro fabbrica, le madri Coraggio della situazione che vedono nella guerra un’occasione commerciale. A differenza della negoziante brechtiana, non sembrano però poter contare su tutta la famiglia.

I quattro figli di Fernando hanno ben altri progetti: Maria, la suora, non fa che pregare ma più che illuminata dalla fede, sembra soggiogata da una morale imposta. Di lei si fa allegramente burla Lelo, l’attore che incarna quella generazione di figli che non riconoscendosi nell’insegnamento dei padri, fa del teatro il proprio mezzo di eversione. Diversa la ribellione dell’operaio socialista, scoperto in flagrante con un’altra figlia (Tina), in una delle scene più esilaranti della pièce.

Berto non c’è. Sussurra distante su di un palchetto laterale da dove adesso può osservare la sua famiglia: è “il Gregor Samsa” della vicenda a cui si sostituisce nel nome, quando esordendo da una botola sul palco, legge l’incipit de Le metamorfosi kafkiane.

A intervallare il quadro familiare è uno showman che fornisce dettagli sulla giornata del 23 Maggio, in cui l’Italia ha dichiarato guerra all’Austria.

Anche qui vecchi personaggi convivono coi nuovi: tornano Freud e Castorp che abbandona il mondo a sé del sanatorio per arruolarsi nell’esercito. Nuovo è l’esordio dei politici Salandra e Sonnino, che fra palco, platea e palchetti, leggono la propria corrispondenza antecedente allo scoppio del conflitto.

Considerato il titolo, non può mancare il teatro nel teatro: quello nel quale si esibisce Lelo e in cui la gente accorre per distrarsi: vi si rappresenta un fotografo nell’atto di immortalare la regina Vittoria coi nipoti e vi si pratica la satira che mette al centro Shimoi (il “camerata samurai”) e Mussolini con la sua incoerenza rispetto agli esordi da socialista. Sulla musica di “Santa Lucia” si canta poi della nave Lusitania.

Ma gli spari come al solito, interrompono le distrazioni: un generale arresta lo spettacolo puntando la rivoltella sugli attori. A poco servirà l’incombere dei socialisti coi manifesti rossi lanciati dai palchetti ed arrecanti le frasi di Turati. La guerra, che non ammette idealismi, schiaccia l’uomo. È quella di un vinto, l’immagine che conclude lo spettacolo: si tratta del nostro attore Lelo, che indossa adesso una divisa. Anche prima di morire continua a vagheggiare scrivendo al padre di un futuro che aspetta, ma non avrà il lusso di vivere.

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Ph. Luca Del Pia

Allo spettatore tornato a casa resta la viva traccia di una grande energia cinetica (data dall’estremo dinamismo dei performer), il pensiero dolce-amaro di alcuni sketch che propongono il sorriso nel tragico ed un accumulo incredibile di aneddoti ed informazioni. Quasi impossibile metterle tutte in ordine e del resto non ce n’è neanche la pretesa. Quello che conta sono i pensieri che affiorano nel dopo, via via, un po’ come piccoli semi piantati per dare modo di riflettere. Perché qui non occorrono lacrime di commozione: questo è un teatro che, nel suo ampio svolgersi, racconta, un teatro a suo modo didattico, un teatro che – per dirla con i social, ma con un’altra sfumatura, meno banale – ci piace.