We Love Arabs
Adi Boutrous e Hillel Kogan in We Love Arabs

MATTEO BRIGHENTI | La carta d’identità del conflitto arabo-israeliano è uno spazio vuoto riempito di parole che danzano. Chi sono Hillel Kogan e Adi Boutrous? La risposta è nel corpo, è il corpo, ciò che dicono ricade come pioggia su ciò che fanno, i pensieri sono braccia, le voci sono gambe, le frasi sono movimento, scambio, incontro. Identità non è essere uguali agli altri, ma complementari, come la forchetta con il coltello o l’hummus con il pane arabo, ricevere dal dare e dare dal ricevere.
Per questo in We Love Arabs la geometria dei confini è totalmente immaginaria, è un gesto che scompare nell’istante in cui finisce, il gomito tornato ai fianchi, un piede di nuovo vicino all’altro. I muri, i fili spinati, non esistono in natura: li ha creati l’uomo a immagine e somiglianza della sua volontà di potere (ultimo, ma non ultimo, il Presidente degli Stati Uniti d’America Donald Trump). Sono nella sua testa e poi nella sua politica. Il grimaldello usato in scena per scardinare questa finzione nefasta è dei più sottili e imprevedibili: l’ironia, che è quasi il ‘metronomo’ dell’intera coreografia, dettandole forme, modi e tempi.
Hillel Kogan è un danzatore, ma anche performer, attore e autore, che ha lavorato per compagnie e festival in Israele e all’estero. Nel 2013 una manifestazione di Tel Aviv ha chiesto a lui e ad altri coreografi di interrogarsi sul senso della danza oggi, su come quest’arte possa essere utile nella vita quotidiana e anche, perché no, educativa. Con We Love Arabs Kogan ha creato una partitura per sé e Adi Boutrous che invita lo spettatore a guardarsi allo specchio e nello stesso tempo, con grazia e umorismo, lo conduce al grado zero, al cuore della danza stessa. Una creazione insignita dai critici israeliani del premio Outstanding Creator of 2013 e ancora in tournée dopo quattro anni.
Fermo, immobile sul palco del Teatro di Rifredi di Firenze, Hillel Kogan è una sagoma d’ombra nella posizione del calciatore pronto al rinvio, come sulle buste delle figurine Panini. L’unica luce è una linea sullo schermo in fondo, un orizzonte chiarificatore, perché sopra compariranno i sovratitoli e sotto i corpi tradurranno quelle parole nello spazio. Cammina, viene avanti, fino al proscenio. È vestito in maglietta e pantaloni della tuta, un abbigliamento comodo, come richiesto agli attori nei giorni di prova, e i piedi scalzi: We Love Arabs è anche metateatro, è uno spettacolo sulla preparazione dello spettacolo, cioè si fa nel momento in cui si dice come lo si vorrebbe fare. Kogan parla, spiega che il corpo percorre lo spazio tanto quanto lo spazio concede al corpo di percorrerlo, un’idea futurista alla Forme uniche della continuità nello spazio di Umberto Boccioni: la figura si modella a seconda dello spazio circostante e assume così la funzione, per così dire, di plasmare le forme.
I feel, ripete, io sento nel senso di io provo. È un sentire fisico ciò che cerca, un contatto tra sé e gli altri, e tutto ciò che non gli appartiene è ‘arabo’, per lui che si presenta in scena come israeliano e di sinistra. “Dove lo trovo un arabo adesso – scherza con noi – in un Döner kebab?” L’ironia è lo schiaffo assestato, con perizia implacabile, in faccia all’intolleranza, allo stereotipo e al pregiudizio di sapere chi si ha davanti prima ancora di conoscerlo. Così, ad esempio, tutte le volte che Hillel Kogan si aspetta un “no” Adi Boutrous risponde con un “sì”, e viceversa.
we love arabsBoutrous viene appunto introdotto come l’ ‘arabo’ e il suo ingresso è semplice e naturale come incrociare per strada uno sguardo sconosciuto. Sta lì, in piedi accanto a lui, forse è sempre stato lì, ma Kogan pare essersene accorto solo quando ha scelto di aprire gli occhi e con essi aprirsi al dialogo. In verità, in accordo con il registro ironico che inquadra tutto lo spettacolo, quello che si instaura tra i due è piuttosto un monologo, una lezione di un padre a un figlio, di un coreografo a un danzatore: Hillel spiega ad Adi i passi, le intenzioni, le posture, lo invita a esplodere dentro, a perdere la sua forma quotidiana e a trovare la sua propria e vera. “Non siamo in teatro, né su un palcoscenico – lo incalza – ma nel tuo villaggio”. Eppure lui, ancora un altro rovescio satirico, è di Tel Aviv!
Si disegnano a vicenda una stella di David sul petto e una mezzaluna sulla fronte (“il croissant sulle moschee” la chiama Hillel), anche se Adi è cattolico. Sono azioni che rimandano, con leggerezza che ne acuisce la mostruosità, all’uomo ridotto a un numero, un colore, una figura geometrica cucita sul pigiama a righe. E, più in generale, alle etichette che diamo per semplificare la complessità che non riusciamo o meglio non vogliamo cogliere, per pigrizia morale, abitudine intellettuale.
Qui, invece, tutto ha un significato, che si spiega e dispiega con il corpo. Dove finiscono le parole We Love Arabs inizia a danzare, con un coltello e una forchetta, o con l’hummus spalmato in faccia. L’hummus è la salsa a base di pasta di ceci e di semi di sesamo, comune alle cucine israeliana e araba: la sua origine si perde nella notte dei tempi. Ed è da quella nebbia, dal fumo che ora inonda il palcoscenico che Hillel Kogan e Adi Boutrous si portano via in braccio, in una battaglia di passi comuni e avversari, si portano via dalla guerra dei vivi e dei morti, verso la luce onirica del mattino che sorge accompagnato da Mozart.
Spezzano il pane e ne danno al pubblico a sala ormai completamente accesa. Il rito di riconoscimento è finito, in un’ora o poco più di monologo danzato capace di disarmare l’intolleranza con il sorriso. We Love Arabs siamo noi, siamo noi questo piatto di hummus.

We Love Arabs
testo e coreografia Hillel Kogan
danzatori Adi Boutrous e Hillel Kogan
musica Kazem Alsaher e W.A. Mozart
consulenti artistici Inbal Yaacobi e Rotem Tashach
distribuzione DdD – Paris

Visto giovedì 19 gennaio 2017, Teatro di Rifredi, Firenze.