ESTER FORMATO | Play duett  è una moderna rapsodia che ha origine non da una struttura testuale ben predefinita ma da una composizione drammaturgica che si traspone in scena secondo la doppia accezione del verbo e sostantivo inglese play: giocare e recitare qui si concretano in due azioni complementari e simultanee, sintetizzate nell’istrionismo di raro pregio di Tonino Taiuti e Lino Musella.

In assito il buio prevale decisamente sulla luce che appare fioca e smorzata; la cavità teatrale viene così restituita nella sua purezza semantica. A corredare la presenza dei due artisti vi è quella di Marco Vidino che accompagna Tonino Taiuti con veri e propri intermezzi musicali attinti dalla melodia napoletana. Tutto il resto è riempito da gesti e voci, unici e sinceri referenti della pratica teatrale, accompagnati da pochissimi ed essenziali orpelli (un cappello, una parrucca, la maschera).

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La scrittura di Play Duett si presenta come una  drammaturgia  che guarda alla caratterizzazione episodica di un varietà o di un avanspettacolo. E difatti la congiunzione di pezzi di testi di tradizione con brani musicali ci portano in quella direzione, avendo come prima impressione quella di assistere ad un perfetto gioco funambolico di Lino Musella e Tonino Taiuti. Eppure ad uno sguardo più profondo Play Duett trasuda una ricerca della e nella parola, quella  dialettale che smette di essere solo tale, quando nella sua prospettiva diacronica diviene unico afflato con quella di Shakespeare (il barocco trasposto dei suoi sonetti in lingua napoletana da Dario Jacobelli), con quella paradossale ed esistenziale del Beckett novelliere, quella poetica e

misterica di Eliot e con l’italiano surreale di Achille Campanile.

La ricerca s’indirizza verso la parola misterica e al contempo carnale, un percorso svolto in condivisione  con il pubblico che trova come punto di partenza un estratto da Wostward ho di Beckett; la parola conosce la negazione tutta contemporanea del suo senso razionale e frugando nelle maglie del nonsense e del paradosso novecentesco,  l’autore irlandese la restituisce come istanza necessaria e irriducibile. Le frasi beckettiane  ci aprono ad un inedito approccio alla tradizione stessa; seguono la liricità della melodia di Piscaturella, canzone di Sergio Bruni e la recita da Basile e Moscato i cui testi fanno da cerniera dello spettacolo. Petrosinella, primo intrattenimento della seconda giornata de Lo cunto de li cunti e l’ultima parte della piéce di Moscato, Trianon s’intersecano in una micropartitura a due voci che sembra costituire la testata d’angolo di Play Duett come un’intelaiatura stilistica che riverbera in tutto lo spettacolo la forza espressiva e spirituale della parola. Quella infettata, sporcata, tradita e deformata che trova come referente scenico il Pulcinella-Zeza di Signurì, signurì, altra opera di Moscato che fa capolino fra un brano e l’altro. Multiforme è già il barocco secentesco nel riadattamento di Ferdinando Russo, così bastardo e raffinato insieme nella sua essenza diastratica  la cui polivalenza anticipa quello che è il sigillo della poetica di Moscato, vale a dire quella lingua putrida e viva al contempo che si fa simbolo di una condizione antropologica e sociale drammatica.

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Tra questi due testi se ne innestano altri che formano la sequenza della partitura complessiva, da Fausto tradotto in napoletano da Antonio Petito da Goethe,  a Raffaele Viviani con Festa di Piedigrotta, introdotta da un verso di Circo Equestre Sgueglia e  da ‘A Cantata d‘e pasture. La parvenza di sketch che assumono questi brani ci riportano alla natura episodica e rapsodica di quasi tutti i testi scelti e che diviene l’essenza della complessiva struttura di Play Duett.  La festa di Piedigrotta scritta in tre atti non è altro che la simultanea vivificazione di una scena collettiva frammentata in differenti personaggi immaginati nella strada affollatissima che reca alla storica festa, così Trianon figura nella drammaturgia di Moscato come  partitura musicale in cui le tre prostitute declamano come voci isolate, dissociate da una forma di coralità, la loro tragedia. Basile in quanto frammento fiabesco incarna uno dei più antichi numeri teatrali, l’arte puramente affabulatoria che  pulsa dalla  voce e corpo, nella mimica gestuale di Musella. Narrazione che si fa inevitabilmente teatro; il Trianon di Moscato reclama la sua metafora di scatola teatrale, e teatro vivo resta la turba popolana di Piedigrotta così palpitante nell’istrionismo di Taiuti;  Farfariello, il demone chiamato da Faust si trasforma in Margherita attraverso il trucco e il costume scenici disposti presso un visibile angolo di camerino ricreato sul fondo dell’assito. Lino Musella siede presso di esso illuminato da candele, svelando nella maniera più semplice possibile la magia (e povertà) del teatro con belletto e capelli finti, trasfigurata ancora nella poesia de la Cantata di Viviani. Il teatro vissuto artigianalmente, al di fuori dalle grandi sale e mal retribuito, preso nella sua autenticità e fatica, evocato da ognuno dei testi  seppur in maniera differente, si concreta visivamente nello spazio cavo in cui i due artisti si stanno esibendo: la mimica, il ritmo, l’entrare nei personaggi e l’uscirci attraverso quell’abbozzo di camerino che squarcia il velo stesso della finzione, la metrica dialettale, la gestualità, sono elementi costitutivi dell’arte scenica, ma anche universo di segni strettamente condiviso con gli spettatori e il loro immaginario con il quale ri-conoscono la tradizione.  Due piani: il rapporto con la parola della tradizione e quello con lo spazio teatrale.

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Musella e Taiuti intrecciano in un unicum performativo una molteplicità di riferimenti testuali che finiscono per approdare all’universalità della poesia shakespeariana e alla sincronia con il contemporaneo attraverso il surrealismo tutto novecentesco di Achille Campanile, passando per l’alta poesia europea di Eliot. Un continuum che astrae la visceralità della parola incarnata (e incrostata) nel sanguigno ventre di un luogo ben definito proiettandola verso la più universale accezione di teatro  in una disposizione assolutamente avanguardista che nello schema di “numeri di varietà” ci propone uno sguardo altro, a-temporale e un rapporto con la tradizione stessa (che coincide bagaglio artistico dei due attori) integro e dinamico. Del resto la drammaturgia di Viviani che qui ha ampio spazio si contamina, diversamente da quanto si tenda a credere, di strutture formali d’avanguardia e di sperimentazione. A permeare questa sensazione di libertà e al contempo di indissolubile adesione alla tradizione, vi è quella definizione spaziale assolutamente dematerializzata – interna alla mente di chi fa e guarda il teatro – che richiama lo sguardo dissidente di che è quello di Antonio Neiwiller nella sua esperienza di “ri-attraversamento” dall’avanguardia alla tradizione. Vedere Play Duett è, quindi, calarsi in un discorso teatrale intenso, che pur avendo come referente massimo il teatro stesso, rifugge da ogni autoreferenzialità. Il senso, il senso di libertà che proviamo nel sentire fluttuare sulla scena le parole della grande autorialità partenopea, e che prendono forma nei corpi dei due artisti, risiede nel ritrovarne l’essenza in Beckett quanto in Shakespeare, dando vita ad una progressiva apertura di confini  non solo formali e teorici.

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Resta impressa, più di ogni cosa, la capacità di ridefinire creativamente le nervature di tradizioni plurime, talvolta contrastanti nella nostra mente, di far di esse un teatro non-convenzionale, di estrarle dalla tendenza a confezionarle per compartimenti stagni, così destinate a circuiti teatrali sclerotici. Perché la tradizione, quando essa è finalmente disancorata da approcci dogmatici e rigidi, “studiandola, ti accorgi che dentro c’è tutto” (Tonino Taiuti in un’intervista su Napolimonitor).  Paradossalmente, non è più dogma, ma libera e strenua ricerca, movimento e idea. Soprattutto, condivisione e scambio.

 

 

 

 

PLAY DUETT

con Lino Musella e Tonino Taiuti                                                                                                     musiche dal vivo Marco Vidino                                                                                                       produzione Casa del Contemporaneo                                                                                                   foto di scena Giuliano Longone