DBS9495-900x601.jpgRENZO FRANCABANDERA | A cinque anni dalla prima impresa di teatro d’alta quota, se così possiamo definirlo per il tema affrontato nella messa in scena, Jacopo Bicocchi e Mattia Fabris, dopo il grande successo di (S)legati,  racconto dell’avventura di Simon Yates e Joe Simpson sulle Ande Peruviane del 1985, tornano a raccontare storie di uomini e montagna. Lo fanno con la vicenda di Jim Davidson e Mike Price, due amici che decidono di affrontare la temibile Liberty Ridge route per arrivare sulla vetta del Monte Rainier, nello stato di Washington, Stati Uniti, “The Mountain” come la chiamano a Seattle. Era il 21 giugno del 1992.

Sia il nuovo lavoro, intitolato Un alt(r)o Everest, che il precedente di cui abbiamo detto, sono nati dalla costruzione di drammaturgie ricavate anche da libri e testimonianze di queste imprese, attraverso la viva voce di chi vi ha preso parte. In questo secondo caso si tratta di The Ledge (Il cerchio bianco, nella sua traduzione italiana).

Simbolico legame fra le due creazioni, oltre alle probabilmente scaramantiche parentesi nel titolo, visto il successo del primo, è la corda, il destino a cui la montagna costringe chi la sfida, quell’essere legati nel bene e nel male.
In entrambe le vicende la rottura dell’equilibrio narrativo è nella caduta di uno degli scalatori; come in Sliding doors la vicenda di Mike e Jim si differenzia da quella di Yates e  Simpson perché in un caso la corda non si spezza e nell’altro si, segnando il destino dei protagonisti. Forse proprio questo ha affascinato più di tutto Fabris e Bicocchi, e lo spettatore di entrambi gli esiti può così fare delle interessanti riflessioni sul senso della vita, del destino, dell’identità di sé e dell’altro da sé, che poi questo secondo impegno effettivamente favorisce.

Quasi sequel emotivo ideale della prima vicenda, Un alt(r)o Everest ha alcuni indiscutibili pregi, il primo dei quali è proprio di essere un altro spettacolo. Di non ricalcare in alcun mo553123.jpgdo la strada battuta con il primo, cercando anzi di distanziarsene in diversi modi, il più significativo dei quali è proprio nella drammaturgia, costruita attraverso una serie di flashback rispetto al tema principale che è quello della scalata e del suo esito. Un ritorno all’umanità dei due, al loro vissuto comune, a quello che li avrebbe poi portati all’impresa insieme. E’ indubbiamente un intreccio di grande suggestione quello ordito dai due attori, che riescono a distillare un tracciato narrativo funzionale alla creazione di pathos scenico ricorrendo, come in (S)legati, a pochissimo, due sedie e poche luci, praticamente un piazzato e un piccolo faro azzurro che narrerà il cuore della loro vicenda, imprigionandoli in un cono di luce del diametro di un metro o poco più.

Il secondo pregio indiscutibile, ancorché non merito dei due interpreti, è il genio assoluto di Maria Spazzi, una delle maggiori artiste della scenografia viventi, in Italia e non solo. Il suo approccio art brut riesce sempre con nulla a risultare evocativo dei temi emotivi e ambientali più densi, trovando modo di legarli in modo ancestralmente inspiegabile. In questo caso la sua creazione consiste nel fare progressivamente a pezzi le due sedie che fanno da supporto scenico, trasformando così il tutto in parti, e in questo fare a pezzi si sviluppano progressivamente metafore dello stare scenico, dalla sineddoche all’allusione ironica. Come nei disegni di Gipi in cui il protagonista scompare nel foglio bianco, ci si trova ad un certo punto a riconoscere una valanga e i detriti che trasporta, a sentire la forza violenta della natura e la fragilità del destino umano.

 Il terzo ed ultimo punto è il ritmo scenico impressionante che lo spettacolo ha per quasi tutto l’allestimento, con un montaggio filmico e un pathos ad incastro capace di essere montato e smontato, frenato ed accelerato, sospinto da una padronanza interpretativa di cui sono portatori i due che non può che entusiasmare lo spettatore. Non ancora perfetti nel trovare finali davvero all’altezza delle loro costruzioni drammaturgiche, forse anche per via delle punte alte di emotività che vengono raggiunte nel corso della pièce, la creazione è un ulteriore e positivo passo avanti nella già alta ricerca del duo Fabris/Bicocchi sul rapporto fra uomini, destino e volontà di autodeterminazione, un must see della scena indipendente italiana.

 

Un alt(r)o Everest

di e con Mattia Fabris e Jacopo Maria Bicocchi

scene Maria Spazzi

light designer Alessandro Verazzi

sound designer Silvia Laureti

scelte musicali Sandra Zoccolan

assistenti alla scenografia Erika Giuliano e Marta Vianello

produzione ATIR Teatro Ringhiera | sponsor tecnico Rock Experience