ELENA SCOLARI | Uno spettacolo su un furgoncino per sette persone. Questa sera siamo tutte donne. Un furgoncino in giro per la periferia di Milano, per un’ora, alla guida il regista Gianpiero Borgia. Si parte dal Teatro Libero e lì si torna, un po’ turbati.
A bordo tendine leggere ai finestrini, una carta geografica appesa, un filo di lucine, divanetti di velluto rosso per i passeggeri e una poltroncina consunta di pelle marrone sulla quale si siederà l’attrice.
Partiamo e dopo poche centinaia di metri sentiamo battere su un vetro: è l’ottava viaggiatrice, Elena Cotugno, che reclama per far fermare il piccolo bus. Sale, inveendo un po’ contro l’autista. La ragazza si siede, ha una parrucca di lunghi capelli neri, rossetto scarlatto, calze a rete e un maglione largo che lascia scoperte le spalle. Gli occhi, vivissimi, chiari e truccati di nero. Sorride, sorride molto.Ha un forte accento rumeno e comincia a dire qualcosa di generico, come fosse effettivamente salita su un normale autobus, una ragazza estroversa che prova ad attaccare bottone per non annoiarsi. Noi sette siamo indecise tra il silenzioso rispetto di una parte che sappiamo essere un copione e una più spigliata partecipazione. Una delle spettatrici comincia a interagire con l’attrice che guida però la conversazione portandola dove deve andare ma senza che si avverta il “pilotaggio”, tutto sembra davvero casuale. E questo è uno dei punti forti di Medea su viale Zara: una naturalezza un po’ impacciata che sembra la trasparente esuberanza di una giovane che ha voglia di parlare.
Ci racconta di venire da Bucarest, dove suo padre era un professore universitario comunista, alla caduta di Ceausescu perde il lavoro e così fa il maestro per i suoi figli, riunendoli intorno a un tavolo e facendogli cantare l’inno nazionale rumeno tutte le sere, Elena ce lo fa sentire dal suo cellulare poi ci chiede se conosciamo il nostro inno e ci chiede di cantarlo, le più spavalde lo intonano e tutte conveniamo che quello rumeno sia molto più bello. Nel frattempo abbiamo raggiunto il quartiere Forze Armate, lo indoviniamo sbirciando dalle tendine. Il racconto prosegue e non ci saranno più nostri interventi, a meno che non ci vengano poste domande dirette.
Si crea un effetto curioso perché si perde la sensazione di essere a Milano, in una città che conosciamo, le tendine aiutano a non distrarsi dal racconto, sì, ma l’attenzione è comunque tutta per la giovane prostituta che a noi (come ad una giuria popolare, in questo caso femminile) si confessa e confida di essersi innamorata dell’uomo che diventerà il suo protettore: l’italiano bello, rosso di capelli, coi denti bianchi, che da Tirana la porterà a Bari – con la promessa di sposarla – e comincerà ad “offrirla” ad un suo caro amico per poi “instradarla”. Qui c’è uno dei più bei momenti del testo (di E.Cotugno con Fabrizio Sinisi): lei spiega come una donna straniera si senta in debito con il paese che la ospita, occupa un posto, con il suo corpo e con la sua persona e così, inizialmente, può trovare uno scambio giusto concedere se stessa, dice “È normale“, con la sua pronuncia rumena e il suo sorriso splendente.
Quell’uomo, il rosso, la faceva ridere, col suo fare clownesco che le ricordava il comico rumeno Dudek. Ma tra una risata e l’altra le contava i preservativi rimasti per calcolare la paga, a lei e alle altre ragazze. Tot condom tot clienti tot soldi.

La donna appare teneramente e sinceramente convinta della generosità di quell’uomo che le aveva dato una piccola casa, e che qualche sera la andava a prendere prima delle altre dicendole “Per oggi basta”. Era buono.

In un progressivo spogliarsi dei sogni e del pudore le vediamo sfilare 4, 5, 6 paia di mutandine sovrapposte, con disegni da bambina, mentre anche chi è a bordo di questo licenzioso mezzo subisce una trasformazione: guardando le scritte al neon fuori dai finestrini si comincia a fare caso a quante sono quelle in lingue straniere, e si capisce un po’ di più come ci si possa sentire straniere in un paese che non è il tuo. Il movimento del furgoncino contribuisce a far perdere l’orientamento, quello geografico ma anche quello etico, e qui cominciamo a scivolare dentro Medea. Dentro un labirinto in cui E. Cotugno ci porta raccontandoci di aver avuto due bambini, dal rosso, costretta a lavorare fino all’ultimo giorno prima del parto, col pancione (“vedrai a quanti pervertiti piacerà”…), c’è ancora l’ingenua speranza del matrimonio ma l’uomo le annuncerà di sposarsi con un’italiana, una farmacista.

Tragedia. Senza mai indulgere all’enfasi, con un’asciuttezza esemplare, l’attrice diventa la donna tradita che mette in pratica la più crudele delle vendette: sgozzerà prima i suoi figli davanti all’amante del suo uomo e poi ucciderà anche lei, lascerà i cadaveri in vista perché il rosso li possa trovare e capire “che il suo futuro non c’è più“. Fine.
L’attrice si toglie la parrucca, il trucco e scenderà dal pulmino, lapidaria come il suo gesto.
Non c’è commozione, c’è l’ultima, tragica fermata del furgone, quella che riporta alla realtà di tante donne mitologiche, periferiche, come le strade nelle quali si è snodata questa storia d’amore cruda, tremendamente luttuosa.

 

Ideazione e regia Gianpiero Borgia 
di Elena Cotugno in collaborazione con Fabrizio Sinisi
con Elena Cotugno
scene Filippo Sarcinelli 
musiche Papaceccio MMC
luci Pasquale Doronzo
Produzione Teatro dei Borgia