RENZO FRANCABANDERA | Dentro un suq, un angolo d’Arabia, in una cittadella lambita dal mare, un lui occidentale incrocia lo sguardo di lei, figlia di quella terra.

Fra stanze d’albergo, bancarelle di spezie, panchine sotto le palme e case bianche, la storia dei due si incrocia con i retaggi culturali di due mondi che si avvicinano, si sovrappongono, si contaminano da secoli senza riuscire a generare equilibri di coesistenza di lungo periodo.

Diverse le strutture sociali alla base dei due modelli, le vocazioni religiose, i tempi e gli stili di vita. In mezzo il ruolo della donna, da sempre oggetto di analisi sociologiche e negli ultimi anni artistiche sempre più accurate e vive. Ritratto di donna araba che guarda il mare, Premio Riccione 2013 per la drammaturgia, è un testo di Davide Carnevali, che da anni scrive per la scena, soprattutto all’estero.
banner.jpgL’opera si interroga sulla condizione della donna e sui rapporti di forza fra maschile e femminile, fra individuo e contesto sociale,  nei due mondi messi a confronto: una forza che si appoggia alle parole che, pur straniere, comprendiamo ma che si svuotano di potere comunicativo nell’evolvere dei dialoghi.

Claudio Autelli codifica la sua regia in equilibri di senso fra naturalismo e antinaturalismo ma senza forzature, forte della straordinaria idea scenica di Maria Paola di Francesco, talento di primo livello del pensiero scenografico, che ricorstuisce un plastico di un paese mediorientale, appoggiato su un libro intagliato a formare i rilievi del territorio, la piccola rocca che  degrada verso il mare. Con l’uso della telecamera manovrata dagli attori in scena e in particolare da Ferraù e Viana (che, anche quando interpreti, hanno il ruolo proprio del ambiente sociale), il plastico diventa proiezione di luoghi a grandezza naturale, volo su un mondo: idea potente e che catalizza di suo l’attenzione dello spettatore in forma pressoché assoluta.

Proiettati dunque in questo mondo, riusciamo quasi a sentire, senza che questo mai accada davvero, il muezzin, le voci del suq, e tutto quell’incastro sonoro che viene piuttosto proiettato dall’immaginazione che dalle scelte compositive che la regia  propone, in un allestimento in cui gli attori sono quasi immobili attorno al plastico, come al desco nella tradizione mediterranea.

Tutta l’ambiguità insita nello scivoloso e non facile tema dell’incontro fra le culture diventa nei dialoghi frammentati e volutamente privi di ascolto reciproco tra i personaggi, pretesto per una drammaturgia che forse meglio delinea il carattere della donna araba, nel conflitto fra sentimento e società d’appartenenza e affidato alla notevole interpretazione di Alice Conti. Più complessa nei suoi passaggi emotivi la figura dell’uomo (Michele Di Giacomo), preso dal fascino per un sentimento a suo modo esotico ma di cui scoprirà la bellezza impossibile.

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Il testo è più ricco di stimoli e suggestioni nella prima parte, quella in cui la vicenda si costruisce e i dubbi sono liquido fertile per la fantasia di chi è in platea; la seconda imbocca un meccanismo di necessità drammaturgica forse un po’ più scontato, fino al prevedibile epilogo tragico dentro un impianto narrativo complessivamente tradizionale, seppur mosso dalla giusta contemporaneità della parola, nei dialoghi che, quando più poetici e vigorosi ed interpretati con la giusta profondità, arrivano intensamente al pubblico. In sostanza, come la disposizione degli interpreti suggerisce, nessuno cambia la propria posizione. Tutti dall’inizio alla fine resteranno dov’erano all’inizio. Più o meno bloccati da destino, retaggio culturale, costrizione sociale.

Elementi forti che, a nostro parere, nella seconda parte perdono un po’ di consistenza, mantenendo tuttavia una compattezza e un sentimento unitario che porta la pièce ad un risultato più che positivo e con un persistente retrogusto di interrogativi, in un’atmosfera di tramonti e voci soffuse, frutto del prezioso disegno luci di Marco D’Andrea e della parte sonora di Gianluca Agostini che accennano senza mai introdurre didascalia.

L’idea registica sviluppa un bassorilievo di identità senza volto, che si perdono nelle vie affollate di un luogo che è nell’immaginazione ma anche nelle paure che proiettiamo verso questo mondo che la violenza terroristica e la migrazione sta contribuendo ad allontanare sempre più dalla conoscenza reale. Viviamo una relazione di conoscenza con questo mondo indiretto ormai, artificiale (come appunto la scenografia del plastico, il libro intagliato ed il meccanismo della telecamera sottolineano), immaginato fra stanze di case inaccessibili allo sguardo esterno, qualche stradina buia che si percorre con piede veloce per allontanarci da ombre e passi che che non conosciamo, voci straniere che arrivano dalle case ed un rifugio che sembra lontano, dove tutto è diffidenza e pericolo se si vuole valicare il confine dello stare per appartenere.

 

RITRATTO DI DONNA ARABA CHE GUARDA IL MARE

di Davide Carnevali
regia Claudio Autelli
con Alice Conti, Michele Di Giacomo, Giacomo Ferraù e Giulia Viana
scene e costumi Maria Paola Di Francesco
disegno luci Marco D’Andrea
suono Gianluca Agostini
assistente alla regia Marco Fragnelli
tecnico luci Stefano Capra
organizzazione Monica Giacchetto e Camilla Galloni
comunicazione Cristina Pileggi
PRIMA NAZIONALE

produzione LAB121
testo vincitore del 52° Premio Riccione per il Teatro – in coproduzione con Riccione Teatro
con il sostegno di Next/laboratorio delle idee per la produzione e la distribuzione dello spettacolo dal vivo
in collaborazione con Teatro San Teodoro Cantù