RENZO FRANCABANDERA | Sembra quasi di riconoscere una struttura operistico-sinfonica nelle costruzioni sceniche della trentottenne regista Anna Sophie Mahler, tedesca ma da anni residente a Zurigo. Antonio Latella la ospita nel week end centrale di questo primo atto del suo progetto triennale per la Biennale Teatro 2017 all’Arsenale di Venezia, dedicato alla regia e declinato ospitando solo artiste, e per la gran parte sconosciute al pubblico italiano. Una grande scommessa che a conti fatti, stando alle indicazioni del botteghino, pare aver premiato l’audacia della direzione artistica: nessun posto libero, biglietti esauriti da tempo e quelli ancora disponibili che spariscono spesso in meno di mezza giornata, dopo che il pubblico ha familiarizzato con l’estetica dell’artista ospite. L’idea di realizzare delle piccole monografie con registe di lunga esperienza, come l’italiana Maria Grazia Cipriani, o più giovani e intente in ricerche sulla commistione dei linguaggi, come appunto la Mahler, hanno modificato radicalmente l’approccio dello spettatore, consentendo di confrontarsi nell’arco di due-tre giorni con creazioni diverse, da quelle storiche a quelle più recenti, di queste interpreti della scena contemporanea.

La non ancora quarantenne tedesca, che fu già da giovanissima aiuto di Marthaler in alcune regie d’opera come il Tristano e Isotta del 2005 presentato al festival di Bayreuth, rivisitazione in chiave moderna del classico anche grazie alle scene e ai costumi di Anna Viebrock (nella foto a fianco), pstuehle-viele-stuehle.jpgroprio partendo dal recupero di parti di quella scenografia che ricordavano una nave da crociera con tanto di sedie a sdraio del pontile (in realtà la nave con cui Tristano nel primo atto porta la principessa irlandese Isolde in Cornovaglia per sposare suo zio, re Marke) la Mahler, dicevamo, approda, è il caso di dire, al suo Tristan oder Isolde, spettacolo del 2013 cui non è mancata una certa fortuna internazionale.
L’originale idea di spettacolo-partitura si rivela sia in questa regia che in Alla fine del mare (5 agosto, Teatro Piccolo Arsenale), liberamente ispirato alla pellicola di Fellini E la nave va e forse scelto non a caso nella monografia per la Biennale 2017 per l’assonanza scenico-ambientale con l’altro, unitamente al dialogo continuato con il tema musicale.
In entrambi i casi il tema della nave e una vicenda sentimentale, il tipico innesco operistico ottocentesco, fanno da sfondo al racconto della società, dei suoi cambiamenti, in una deriva che in entrambi i casi appare chiara e implicitamente ineluttabile. L’imbarcazione non arriva in nessun caso a destinazione: il pubblico assiste in sostanza a due remake del Titanic, avendo per giunta chiaro fin dall’inizio che assisterà in qualche modo ad un naufragio, e che è finanche inutile sperare che qualcosa sopravviva.
Tristan oder Isolde (4 agosto, Teatro alle Tese) è un pastiche che in verità con Wagner ha a che fare in modo registicamente opportunistico, concentrandosi su una sorta di parodia della meccanica del teatro e della costruzione dello spettacolo dal vivo, in cui fin dall’inizio la regista stessa arriva in scena per spiegare alcune questioni metodologico-musicali, quasi che le stesse debbano poi riverberare nella costruzione drammaturgica. Così ci aspettiamo che la combinazione di fa, si, re# e sol#, ovvero il celebre accordo di Tristano con cui Wagner crea una vera e propria sospensione emotiva quasi mai udita prima nella sua opera, entri nell’ingranaggio, ne diventi ispirazione. È la regista stessa a spiegarlo ad inizio spettacolo, con gli attori in scena a sgranocchiare semi di zucca: l’uso di questo tipo di accordi si ebbe anche nel Settecento classico ma con circospezione, principalmente come arricchimento di un giro cadenzale, per evitare di perdere di vista il fulcro della tonalità. Ma quando i compositori cominciarono ad impiegare sempre con maggior frequenza i suoni cromatici – sia negli accordi che nelle note estranee (appoggiature, note di passaggio, di volta) – misero il senso della tonalità a rischio, e l’ascoltatore, al quale per forza di cose era richiesta una nuova e maggiore attenzione, rimase disorientato dal non individuare facilmente i centri tonali del brano.

Immaginiamo questo prologo quasi brechtiano sulla fonte di ispirazione sia come la dissertazione sull’offerta musicale di Bach con cui Douglas R. Hofstadter apre il suo saggio sul concetto di infinita ricorsività Gödel, Escher, Bach: un’Eterna Ghirlanda Brillante.
20622132_10155309828930861_3190825996707907850_n.jpgDiversamente dal libro, però, dove filosofia, matematica, logica e musica si intrecciano continuamente, in questo Tristano e Isotta teatrale si resta assetati di musica fino al finale, perché per la quasi totalità dello spettacolo di musica non se ne ode, il pianista spalle al pubblico suona un piano da saloon senza emettere suono e solo alla fine, con un’aria e poi con una bella riduzione per pianoforte dell’opera, lo spettatore risolve la sua fame di note. Fino a quel momento, in una drammaturgia pastiche (firmata da Kris Merken), si intrecceranno le vicende della celebre coppia della saga, questioni sull’eredità della cultura ottocentesca e della poetica musicale wagneriana, riflessioni filosofiche sul sentimento e sulle relazioni interpersonali e parodie dell’odierna macchina teatrale, affidate a due attrici (le notevoli Susanne Abelein, Bettina Grahs) che alternano rari dialoghi a brevi monologhi e a due musicisti (Damian Rebgetz e Benjamin Brodbeck) che all’uopo aggiungono una minimale presenza scenica al servizio della costruzione di relazione e di senso, ma senza quasi mai prendere parola.

Dalla parsimoniosa distillazione del primo spettacolo, quanto a musica, si passa alla luculliana offerta del secondo, Alla fine del mare ispirata alle ambientazione felliniane de E la nave va, dove il solito pianista che dà le spalle al pubblico accompagna una cantante lirica (e anche un coro) per quasi tutta la pièce: nella drammaturgia di Laura Ellersdorfer un gruppo di improbabili cantanti lirici si trova su una nave, non fatichiamo a pensare fin dall’inizio alla deriva, se non sostanziale almeno morale, e come nel film di Fellini anche qui ad un certo punto  irrompe nella vicenda il naufrago, qui nella veste del più attuale migrante, che proverà a cantare senza riuscirvi, proverà ad amare senza riuscirvi la soprano (cantante Yuka Yanagihara) che fino a quel momento ci ha regalato  la sua voce quasi ininterrottamente per un’ora. Gli riesce, invece, quasi costretto dagli sguardi poco accoglienti del resto dei viaggiatori, di uscire nudo di scena, invero anticipando solo di poco tutti gli altri che, come nel film di Fellini, hanno il destino segnato.

La meccanica comune ai due spettacoli, che pare quasi topica della costruzione della Mahler di cui si faceva cenno all’inizio, e che in queste due creazioni, pur distanti, appare leggibile, consta appunto di un’ouverture, spesso leggera e che aiuta il pubblico ad avere un’empatia con la creazione (non manca l’ironia e la trovata umoristica quasi da commedia dell’arte), cui segue una sorta di proposta del tema concertistico-sinfonico che viene a seguire declinato in un Largo, che può avere ampiezza importante, e nel cui ritmo più lento lo spettacolo costruisce le sue profondità con uno schema di drammaturgia ormai abbastanza consolidato nel teatro centro europeo e tedesco in particolare dove vicenda surreale e satira sociale si fondono per generare esplosioni nel consesso post-borghese. Poco prima del finale, un monologo, quasi un momento solistico, induce lo spettatore a condensare la riflessione, quasi a riportarlo ad una comprensione che apre poi al movimento finale, spesso un sussulto emotivo non verbale.

Fine_Mare_1171_Web.jpgIl teatro germanico ha negli ultimi anni stilizzato in modo canonico un tempo scenico lungo, verrebbe da dire ronconiano per evitare che questa riflessione suoni geograficamente banalizzante. L’uso del tempo dell’arte, diverso dal tempo della vita, e che può comprendere e alternare brio, allegria, rabbia, ma anche indifferenza, distanza, noia, condensa per lo spettatore nel volgere dell’esperienza in sala l’esperienza del vissuto fuori, in qualche modo la replica, spesso lo mette di fronte a quello che nel suo quotidiano rifugge, come la ripetizione, il tedio, il non poter sfuggire al posto che ti è stato assegnato. Tanta a volte la rabbia di vederlo portato in scena quanto grande la forza di sopportazione con cui la maggior parte lo si accetta nella propria vita.

Il condensato di vissuto che la Mahler con il suo originale tratto sinfonico-teatrale porta in scena, lungi dall’essere creazione dal ritmo perfetto nel modo onestamente comunque un po’ più più brioso con cui in Italia si intende tale concetto, ha proprio quelle larghezze wagneriane, crea anse di risacca, in cui dovremmo trovare scandaglio del presente. Su questo, a nostro avviso, però, le drammaturgie sostengono solo in parte la meccanica creativa così organizzata e precisa. Sicuramente più ispirato il Tristan oder Isolde, nonostante l’assenza di musica. L’altro ci ha portato in un Largo operistico da cui abbiamo agognato di venir fuori, nonostante la tantissima musica; singolare stranezza per una regista che proprio nel rapporto con la musica costruisce il suo spazio di indagine.

Tristan oder Isolde
(2013, 80’) prima italiana
un pastiche di CapriConnection
ideazione Susanne Abelein, Rahel Hubacher, Anna-Sophie Mahler, Kris Merken
regia, vocals, violino Anna-Sophie Mahler
direzione musicale, pianoforte Stefan Wirth
con Susanne Abelein, Bettina Grahs
vocals (video) Damian Rebgetz
melodica, carillon Benjamin Brodbeck
drammaturgia Kris Merken
management, produttore Christiane Dankbar
basso, luci Benny Hauser
scene Duri Bischoff
(con parti delle scene di Anna Viebrock)
costumi Nic Tillein
suono Thomas Winkler
video Florian Olloz
assistenza tecnica David Hauser
produzione Stadt Zürich Kultur, Fachstelle Kultur Kantor Zürich, Fachausschuss Theater und Tanz beider Basel, Stanley Thomas Johnson Stiftung
coproduzione Festspiele Zürich, Gessnerallee Zürich, Kaserne Basel
con il sostegno di pro Helvetia Schweizer Kulturstiftung, Stadt Zürich Kultur

Alla fine del mare
(2017, 90’) prima italiana
da motivi tratti dal film di Federico Fellini “E la nave va”
regia Anna-Sophie Mahler
con Johanna Link, Sylvana Schneider, Peter Posniak
cantante Yuka Yanagihara
scene Duri Bischoff
costumi Nic Tielein
musica, pianoforte Stefan Wirth
direzione del coro Frederic Bolli
drammaturgia Laura Ellersdorfer
produzione Theater Konstanz