RENZO FRANCABANDERA | Eppure qualcosa di generazionale deve esserci… : anche se i percorsi artistici di Fibre Parallele/Licia Lanera e Babilonia Teatri hanno avuto pochi punti di contatto, fanno parte di una generazione di indagatori del linguaggio scenico affacciatasi alla ribalta  un decennio fa e che in questi anni ha lavorato con una testualità originale e spiazzante, Fibre facendone un motivo di indagine sul sistema delle relazioni umane intime, spesso con un focus sul microcosmo degli affetti nella coppia, Babilonia sui temi del sociale, nel loro riflesso sulle relazioni. Non paia questa riflessione un tentativo forzato di accomunare compagnie e artisti diversi con esperienze e linguaggi differenti. Cerchiamo di mettere invece l’accento su un’esigenza compositiva che arriva quasi sincronica per entrambe, di confrontarsi, più o meno volontariamente, con la forzatura della struttura classica dell’intreccio fabulistico, con le vecchie favole appunto, perché ci pare che sia Pedigree in modo meno esplicito, sia The Black’s tales tour in modo più evidente, agiscano su questo tema. Ma la favola è anche un elemento potentissimo, a cui è difficile accostare altro, o di cui è difficile modificare la struttura senza patire alcune conseguenze negli equilibri della narrazione.
Vediamo come le due compagnie hanno lavorato.

Prendiamo una favola comune, come può essere Cenerentola, non a caso prima fra quelle che compongono l’excursus su alcune fiabe classiche rilette da Licia Lanera.

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The black’s tales tour, che abbiamo visto al Franco Parenti di Milano, ha una costruzione interessante perché parte fuori dalle fiabe con un io narrante che ci parla al buio, e finisce fuori dalle fiabe stesse, partendo e arrivando su questo personaggio che si racconta e ci racconta le favole. Il percorso nell’elemento fiabesco qui rappresenta una sorta di attraversamento del travaglio esperienziale delle protagoniste femminili, per spiegarne il tormento: si parte da Cenerentola, passando poi per la Sirenetta, Biancaneve, La Regina delle Nevi.
Man mano le vicende vengono spogliate di elementi costituenti, fino ad asciugarsi al solo conflitto centrale, che in alcuni casi è il dilemma del vendicarsi dell’amore negato ne La Sirenetta, in altri è l’invidia, come nella versione di due minuti, senza nani e principe, di Biancaneve. Il principe è tipicamente, in queste riletture, l’uomo che non comprende l’amore della protagonista. unnamed-1.jpgQuesta curiosa deflagrazione della struttura fiabesca corrisponde scenicamente al ritorno del fuoco narrativo sulla vicenda soggettiva della protagonista, al destrutturarsi del piedistallo su cui “la Stella” poggia le sue certezze, lei dall’aspetto così aggressivo nel vestiario quasi bdsm, ma a cui viene meno il piedistallo che, sgretolandosi, compone parole che non si fermano nella loro presenza se non in un anelito all’eternità su cui però si spengono le luci.
Tutto lo spettacolo è impreziosito dalla notevole rielaborazione musical-digitale del suono da parte di Tommaso Qzerty Danisi, che fra manopole, pitch di distorsione del suono, loop, effetti e tastiere, praticamente rielabora e produce in tempo reale il suono digitale, creando una colonna sonora costruita sulla vocalità stessa dell’attrice, e senza la quale questo spettacolo sicuramente perderebbe buona parte della profondità di distorsione semiotica che si propone.
Belle anche le luci di Martin Palma. Uno spettacolo che torna su toni e tinte che rimandano a Due, spettacolo di alcuni anni fa, incentrato anche allora sul tema dell’amore sconfitto e riletto dalla parte della donna, che trovava nella vendetta il suo happy end. Qui “la Stella” non ci arriva.
Rimane nel bosco delle impossibilità, impedita ad un “e vissero per sempre felici e contenti”. Lo spettacolo funziona nel complesso fra testo e musica, anche se alcune note risuonano con una frequenza che finisce per spingerle verso la didascalia, specie nel finale, dal tono comprensibilmente umano e diverso, dove la protagonista con il vestito in lattice sembra quasi chiedere l’orsetto per accoccolarsi, ma forse l’introduzione del codice semiotico parola poteva essere giocato un po’ diversamente nel suo rapporto col recitato. Il fidanzamento scenico finale fra protagonista coccolona e nude lettere è un po’ distonico rispetto al codice scenico complessivo, anche nel suo volersi proprio distanziare.

unnamed-2.jpgAll’happy end delle vecchie favole non provano nemmeno ad avvicinarsi i Babilonia Teatri.
Pedigree (nella stagione di Manifatture Teatrali Milanesi) è la dura fiaba, se non vera certamente verosimile, di un giovane uomo, figlio di una famiglia omogenitoriale, nel caso specifico composta da due madri, che hanno scelto di avere un figlio con la fecondazione assistita. In una scena buia con alcuni elementi scenici di contorno, il cui senso resta un po’ criptico, racconta tutto Enrico Castellani, con piccoli monologhi che ripercorrono in prima persona la vita del ragazzo, legandola al suo contesto sociale di riferimento. Antagonista, in questa favola, è il genitore invisibile, ovvero il padre donatore, datore della vita e di molte delle angosce legate alla sua assenza, alla sua scelta di aver permesso sul modulo di fecondazione che da maggiorenne il ragazzo potesse entrare in contatto con lui.
Cosa che il giovane non farà, preferendo invece trovare la stranissima relazione con i suoi fratelli biologici, sparsi per il mondo, nati come lui da altre inseminazioni. Il sistema di prove a cui dovrà andare incontro il protagonista è quello delle scelte altrui, fra atti d’amore e atti d’egoismo, il cui confine è sempre molto labile da leggere, arrivando a porre dilemmi sul sistema complesso del reale.
La scelta della parola è quella che i Babilonia hanno abbracciato senza abdicare in tutti questi anni, una sorta di tentativo di proporre, attraverso la neutralizzazione del recitato enfatico, un effetto brechtiano. In un ambiente sospeso a metà strada tra una galleria d’arte e un locale di street food, mentre alcuni polli cuociono nudi e miserabili a fuoco lento, le esistenze si raccontano. Interessanti alcuni inserti simbolici (belli i due vestiti di donna appesi alle grucce che si intrecciano a raccontare l’amore fra le due madri) voluti da Enrico Castellani e Valeria Raimondi, mentre qualche ragionamento ulteriore potrebbe trovare spazio sul tema della parola, per evitare che lo slabbramento della fiaba, nell’impossibilità dell’happy end lo approssimi rischiosamente alla cronaca, lasciando il senso più profondamente teatrale dell’operazione un po’ incompiuto; sentiamo la mancanza nel testo di uno scarto poetico utile ad avvincere anche nella crudezza, e che si apprezza piuttosto negli inserti fra un testo e l’altro. Ma se l’equilibrio compositivo è invece così spostato sul testo…

 

THE BLACK’S TALES TOUR

di e con Licia Lanera
e con Qzerty
regia Licia Lanera
scene Giorgio Calabrese
costumi Sara Cantarone
luci Martin Palma
sound design Tommaso Qzerty Danisi
consulenza artistica Roberta Nicolai
organizzazione Antonella Dipierro
regista assistente Danilo Giuva
produzione Fibre Parallele
coproduzione CO&MA Soc. Coop. Costing & Management
e con il sostegno di Residenza IDRA e Teatro AKROPOLIS nell’ambito del progetto CURA 2017 e di Contemporanea Festival/Teatro Metastasio

PEDIGREE

con Enrico Castellani, Luca Scotton
parole Enrico Castellani
cura Valeria Raimondi
direzione di scena Luca Scotton
produzione Babilonia Teatri, La Piccionaia centro di produzione teatrale
coproduzione Festival delle Colline Torinesi
un progetto di Babilonia Teatri
organizzazione Alice Castellani
scene Babilonia Teatri
costumi Franca Piccoli
foto Eleonora Cavallo
produzione 2017