ANTONELLA D’ARCO | Solo, nella sua bottega; le luci si affievoliscono; la radio manda un vecchio rock’n’roll. Al suono di quelle note Don comincia a ballare divertito: è felice, il suo volto pieno di speranza. Più balla e più la sua figura si trasforma in una sagoma. In essa sono racchiusi desideri, paure, incertezze, il presente e il sogno di un futuro da lì da venire; un sogno che, spente le luci, si trasforma in incubo. Il corpo stanco di Don cade sulla poltrona, le note del rock’n’roll diventano suoni distorcenti, le paure trattenute in quel ballo si fanno reali.

Non è la scena con cui Donato Russo, alias Don, si presenta agli spettatori, nell’ American Buffalo in cartellone al Teatro Bellini di Napoli fino a domenica 19 novembre, ma è certamente il frammento più poetico che Marco D’Amore, regista dello spettacolo e co-protagonista, nei panni di ‘O Professore, a fianco di Tonino Taiuti/Don e di Vincenzo Nemolato/Roberto, restituisce negli occhi di chi guarda. È questa la scena che fa da cesura tra un immaginario primo e secondo atto, tra l’ideazione del crimine e la sua imminente attuazione, fra i trasognati progetti e lo scontro con la realtà; è questo il quadro che dipinge l’intimità e la solitudine di Don, solitudine che avvolge anche O’Professore e il giovane Roberto.

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Foto di Bepi Caroli

D’Amore, alla sua prima regia, ha scelto di confrontarsi col testo del premio Pulitzer David Mamet: American Buffalo, scritto nel 1975 e portato nelle sale cinematografiche circa vent’anni dopo da Dustin Hoffman e Dennis Franz, diretti da Michael Corrente. Dagli Stati Uniti, la lingua di Mamet arriva nella periferia napoletana, per essere transcodificata dalla riscrittura di Maurizio de Giovanni. Tre reietti, tre ultimi, tre scarti della società architettano di fare un colpo. Don, un cowboy demodé con la fissa per tutto ciò che è a stelle e strisce, proprietario di una bottega stracolma di oggetti e gingilli che oggi definiremmo vintage e che un tempo erano pane quotidiano per i rigattieri; Roberto, “o guaglione” un po’ tossico, un po’ beota, ingenuo e furbo in egual misura, fido sodale di Don; e ‘O Professore, un disadattato sul filo della psicosi, decidono di entrare in casa di un cliente di Don, un intenditore di roba vecchia, un collezionista che, per poco e niente, complice l’inesperto venditore, si era accaparrato una preziosa moneta americana con sopra disegnata la testa di un bufalo: l’American Buffalo, ora, chimera da recuperare.

I tre protagonisti sopra le righe, per scrittura ed intenzioni, assumono un’identità precisa nel lavoro dei tre attori; fra di loro, Tonino Taiuti, vuoi per natura del personaggio, per talento e di mestiere, è capace, sotto la maschera messa in scena, di vedere ed avvicinarsi, più degli altri, alla verità scenica. Una prova d’attore che gli è valsa la vittoria come miglior attore-non protagonista all’ultima edizione de Le Maschere, dove è stato premiato anche Vincenzo Nemolato, quale miglior attore emergente. Da questi riconoscimenti si può dedurre la grande attenzione e precisione con cui Marco D’Amore-regista ha curato l’aspetto attoriale della messinscena. Con un’unica inquadratura fissa, egli porta nello specchio d’interesse degli spettatori, attraverso i suoni percepiti e attraverso gli elementi e i personaggi evocati dal testo, anche ciò che non si vede.

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Foto di Bepi Caroli

La strada, palestra dove farsi le ossa e dove apprendere la “cazzimma”, substrato per quelle anime in pena ai margini del mondo, è luogo presente nella visione registica; così come anche Sasà, compagno di poker di Don, che mai appare sul palco, diventa il simbolo dell’attesa, l’attesa di un elemento che possa indurre il cambiamento, prima che si compi l’«apologia della deriva», espressione con la quale Marco D’Amore definisce questo American Buffalo.

Amicizia, fiducia, tradimento e sospetto si accavallano e si confondono in questa guerra tra i poveri, che l’adattamento di Maurizio de Giovanni, fa combattere a Napoli; città borderline e contraddittoria che ben si presta a fare eco alle ombre della natura umana, da sempre rappresentate in un teatro di tradizione che strizza l’occhio all’umoristico e al tragicomico.

La scena sovraffollata e realistica, disegnata da Carmine Guarino, accentua questo sentimento e, in preda all’horror vacui, non solo visivo, ma anche dei personaggi,  delinea il contrasto tra le tante cose accatastate alla rinfusa, riflesso del mondo che Don si è costruito, e il baratro verso il quale lui, ‘O Professore e Roberto stanno precipitando. Il vuoto è anche e soprattutto la condizione del loro spirito, ossessionato dalla solita domanda: “Quanto vale?”. È un punto interrogativo che li condanna alla materialità e all’inesorabilità della loro natura da ultimi: il sogno americano di Don, ballato sulle note di quel rock’n’roll, finisce quando dalla radio la voce di Carosone gli ricorda che è nato “in Italy”.

 

AMERICAN BUFFALO

di David Mamet

adattamento Maurizio de Giovanni

con Marco D’Amore, Tonino Taiuti, Vincenzo Nemolato

scene Carmine Guarino

costumi Laurianne Scimemi

luci Marco Ghidelli

sound designer Raffaele Bassetti

regia Marco D’Amore

produzione Teatro Eliseo