Andrej – l’assenza di sé @ Francesco Spagnuolo

MATTEO BRIGHENTI | Un pittore, una tela e il buio. L’artista, solitamente, è i colori che usa. Francesco Chiantese, invece, avviluppa Andrej Rublëv nel nero più nero: l’assenza dei colori. Quando ogni cosa è possibile quanto il suo contrario e l’ispirazione è ancora soltanto visione, dono inspiegabile, scommessa con il destino.
Andrej – l’assenza di sé (primo studio) apre dunque le porte del tempo che precede la creazione artistica e lo dilata in un confronto muto tra il più grande autore di icone e il regista Andrej Tarkovskij, che a lui ha dedicato il film Andrej Rublëv nel 1966.
Un rito quasi esoterico, alla ricerca di uno sguardo spirituale sulla realtà che si accompagni all’immaginazione, per cogliere la fonte della necessità di esprimersi attraverso l’arte. Non è ‘immediato’, chiede piuttosto di essere aspettato con pazienza e partecipazione.

Dopo Requiem popolare e Cretti, o delle fragilità, l’attore, regista e drammaturgo toscano di origine campana torna a esplorare il tema dell’assenza, completando quella che oggi definisce la sua Trilogia dell’assenza.
Requiem popolare è stato l’esito di un lunga riflessione dal punto di vista di chi non è più tra noi, mentre Cretti, o delle fragilità si è interrogato sui segni lasciati su chi rimane. Con Andrej Chiantese intende ora sperimentare il ‘divenire assenza’, raffigurando l’artefice al confronto con l’opera (della sua esistenza), e viceversa.
“Per usare un termine riferito al sacro, l’assenza di sé dell’artista – afferma – è come una sorta di trascendenza, di trasfigurazione. Questo per me vale molto in teatro, perché io preferisco un attore che sia assente a sé, affinché sia presente qualcos’altro che normalmente non riusciamo a vedere”. Non tutto è chiaro, definito, spiegato nel dettaglio, ma invero la comprensione non è il suo obiettivo principale, quanto il costruire un’esperienza a stretto contatto con il pubblico (l’ideale sono 20 spettatori).

Onni-presente all’inizio di Andrej è il buio, che una fioca lampada da cui gocciola dell’acqua, con la sua impotenza, non fa che acuire. Francesco Chiantese è una figura intagliata nell’oscurità, cammina alle spalle del pubblico, disposto per lungo su due file parallele al centro della sala ricavata nel Padiglione 16 dell’ex manicomio fiorentino di S. Salvi.
Ha le braccia dietro la schiena e salmodia qualcosa, forse in latino. Compie un giro completo intorno agli spettatori, separati da uno spazio vuoto, un campo di forze invisibili tra due sedie rosse poste alle estremità.
Un tonfo e lo scopriamo a terra davanti a noi, sdraiato sul rovescio della sua tela. Essa ha una consistenza come di ardesia, su cui ripete, insiste, con precisione e violenza, i segni di alcune croci. Pare più graffiarle più che tracciarle con il gessetto. Vestito di nero, scalzo, è presenza e ombra di sé allo stesso tempo.

Foto di Francesco Spagnuolo

Siamo nel chiuso della mente di Rublëv, quasi nel sogno cupo dei giorni vissuti o che gli rimangono da vivere pressoché uguali, al pari di quelle gocce che cadono. Una dilatazione temporale propagata dalla musica sperimentale dei Blutwurst, che conferiscono all’atmosfera un senso di costante disequilibrio e prolungata inquietudine.
Le tracce suonate provengono da Tenebrae (Tempo Reale Collection), dove si altera la relazione tra le diverse linee melodiche di alcuni frammenti del brano Tenebrae factae sunt composto nel 1611 da Carlo Gesualdo da Venosa. È una colonna non solo sonora, ma anche drammaturgica.

Il monaco pittore sembra ricevere l’ordinazione sacerdotale direttamente dalla sua ossessione creativa. Poi, l’interprete si alza e, sotto una luce da alba sgranata, si dirige verso la sedia che ha di fronte, quella con ai piedi tavolozze e pennelli. Il grande corpo, la barba folta, il passo rapsodico, lo fanno assomigliare a uno sciamano placido e satanico.
Una volta seduto, mangia la ministra da un povero piatto bianco. Gli si rivolge una voce, la sua stessa registrata: perché dipingere l’acqua? Perché dipingere qualcosa che muta e non l’immutabilità delle cose?
L’acqua che permea ogni dove è simbologia cara a Tarkovskij. Infatti, in quella voce e nelle altre che seguono si accavallano, rincorrono e a volte zoppicano (non sorretti da una vocalità sempre centrata) pensieri, parole, opere e citazioni del regista russo e dei suoi film: un continuum tra memoria del passato e incombenza del presente.
Così, l’Andrej che ha traghettato la pittura dal formalismo bizantino a un’umanità vicina a quella degli artisti rinascimentali dialoga in silenzio, senza quasi mai parlare, con l’Andrej che ha reso corporeo il ‘sottosuolo’ dell’uomo tramite un lessico filmico suggestivo, nella misura in cui non dichiarava, ma era incline a sottendere.

Ed è dal corpo dell’attore che passa l’arte di Andrej Rublëv. Chiantese conta con due dita lunghezza e larghezza della tela e dopo di se stesso, gambe, braccia, testa: là dove l’opera prosegue nella vita o, meglio, dove l’opera ha origine e la vita deve imparare ad annullarsi.
Del resto, il pittore venne proclamato santo nella religione ortodossa per la sua capacità di creare icone che non erano rappresentazione del divino, ma il divino stesso. La natura, la tradizione, l’uomo, sono le realtà più vicine a Dio.

Foto di Francesco Spagnuolo

La sua vera croce è la tela e quindi l’attore se la carica sulle spalle finché non la adagia, come sul cavalletto, sulla sedia opposta a quella dove era seduto. Il dritto mostra adesso una specie di flusso d’acqua argentea di foglie d’autunno: è riuscito a inscrivere il mutamento (l’acqua) nella ciclicità delle cose (le foglie).
I colori arrivano, ma soltanto alla fine, come in Andrej Rublëv, quando vengono mostrate alcune icone. La Storia è in bianco e nero, secondo Tarkovskij, e destinata a sparire, con tutto il suo carico di dolore e crudeltà, mentre l’arte, con la sua luce e pace, è destinata a restare, in simbiosi con il grande fervore del Creato.

Eppure, l’elegia documentaria della pellicola non si addice ad Andrej, a questa somma misurata di immagini e azioni dall’impatto fortemente simbolico, pur nella semplicità dei gesti. C’è un ulteriore scavo nel furore creativo, al punto che la pittura diventa sangue da lavare via dal corpo e la tela un cadavere da coprire con un grigio sudario.
Dal buio siamo nati e nel buio ritorneremo. Nel frattempo, non facciamo altro che ripetere il già detto, riscrivere il già scritto, rivivere il già vissuto: ciò che resta davvero di noi è il teatro quotidiano.


ANDREJ – l’assenza di s
é (primo studio)
uno spettacolo di e con Francesco Chiantese
assistente alla regia Matteo Pecorini
c
onsulenza musicale Blutwurst
produzione Accademia Minima del Teatro Urgente / Teatro dei Sintomi
residenze artistiche Chille de la balanza, Firenze | Cajka Teatro di avanguardia popolare, Modena | Teatrino di Palazzo Chigi, San Quirico d’Orcia (SI) | Riserva Naturale di Pietraporciana, Sarteano (SI)
si ringrazia Alessia Cristofanilli per il dialogo e l’Andrey Tarkovsky International Institute per il costante lavoro
Visto domenica 12 novembre 2017, Via di S. Salvi 12 – Padiglione 16, Firenze. Il prossimo anno sarà al Nostos Teatro (Aversa) il 9 marzo, ancora in forma di studio, poi il 24 marzo debutterà al Čaika Teatro d’Avanguardia Popolare (Modena) nella versione definitiva.