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disegno realizzato dal vivo da Renzo Francabandera

RENZO FRANCABANDERA e MICHELA MASTROIANNI | Ifigenia, liberata è un ambizioso progetto di Carmelo Rifici, una coproduzione italo-elvetica dell’anno scorso fra LuganoinScena di cui Rifici è direttore, e il Piccolo Teatro di Milano, dove lo spettacolo è stato ospitato ad aprile 2017. Lo abbiamo recuperato dopo un anno di tournée al Sociale di Brescia.
Entriamo in teatro e tutto è acceso, gli attori già sul palco, con regia a vista, uno spazio scenico ampio, con un’ambientazione che sa di sala prove. Informalità contemporanea. Attori che si parlano fra loro. Vestiti di eleganza casual. Lo spettacolo inizia così.

MM: Un Regista e una Drammaturga ci accolgono proprio alle prove aperte di una messa in scena della storia di Ifigenia, mito noto, esplorato in due tragedie da Euripide, e qui, nella drammaturgia di Angela Demattè e Carmelo Rifici provocatoriamente “liberata”. Anche questa volta il mare è in bonaccia, non c’è vento a spingere le navi degli Achei verso Troia. Lo stallo ha spossato l’esercito che pretende l’azione. Un’azione cruenta, che suggelli ancora il rapporto di devozione del popolo verso gli dei e confermi il reciproco legame. Un’innocente deve morire. Ifigenia, liberata rispetta la tradizione: l’innocente non verrà salvata, anzi accoglierà il suo destino e si offrirà con “onore eroico” come sacrificio sull’altare di Artemide, dea lunare, custode delle vergini. Tutto si compirà come deve, come Zeus e le Moire hanno disegnato, perché il mito non è mai raccontato per sorprendere o meravigliare. Il mito è una forma di trasmissione della conoscenza, in cui il sapere si cristallizza in immagini, mentre la narrazione procede con un andamento analogico e simbolico. Il mito è parola simbolica, ma anche la filosofia o la religione (ad esempio la lingua dei profeti o delle parabole o dei testi escatologici) hanno parlato per simboli ed immagini. Perché si apprende essenzialmente per via di metafora e per imitazione (per Platone metessi e mimesi). La memoria stessa ha una sua dimensione narrativa: se l’insegnamento è veicolato dalla narrazione, allora l’apprendimento sarà più stabile e duraturo. Perciò la scrittura di Demattè e Rifici, quasi imitando la tecnica retorica dei dialoghi di Platone, si sviluppa su un doppio piano: quello del simbolo (il mito) e quello della sua esegesi, affidata agli interventi del Regista (interpretato da Tindaro Granata) e della Drammaturga (Mariangela Granelli) che si rivolgono talvolta agli attori in prova, talvolta al pubblico in sala, per fornire chiavi interpretative della narrazione mitologica o per chiarire il senso del percorso concettuale che, con il pretesto di Ifigenia, si vuole proporre.

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disegno realizzato dal vivo da Renzo Francabandera

RF: Il senso di questa operazione riguarda profondamente la passione di Rifici, quasi archeo-sociologica di rinvenimento di segni insiti nelle parole e capaci di superare la barriera del tempo e delle culture, per diventare universale umano. Ne risulta una costruzione singolare e suggestiva in cui per un verso l’opera originaria viene vivisezionata e fatta a pezzi; per altro verso, invece, anche grazie al positivo lavoro drammaturgico con la Demattè, raccoglie suggestioni da altre fonti letterarie e compone uno scenario di senso, una scenografia concettuale (di Margherita Palli) capace di ambientare lo spettacolo più di posticce apposizioni oggettuali. Infatti il palcoscenico è una sala prove, uno spazio teatrale accessibile, ma che rivela un suo backyard. Un riferimento simbolico alla capacità e alla volontà dell’operazione di disvelare un oltre, uno spazio non immediatamente visibile o percepibile ma che con lo studio e l’attenzione è possibile aprire alla conoscenza.
E non a caso questo spazio arriva poi ad essere abitato persino da qualcuno del pubblico, altro riferimento al fatto che Rifici intende questa tensione all’accessibilità della conoscenza non come un tema per pochi eletti, un’illuminazione neopitagorica, ma una possibilità di tutti e per tutti.

MM: La tesi del lavoro è che la violenza è profondamente radicata nell’uomo. È una sua caratteristica ontogenetica, ovvero dell’individuo, ma anche tragicamente filogenetica,  cioè dell’intera specie umana, come dimostrerebbe la scena del primo omicidio all’interno di un gruppo di sapiens, ricostruita quasi in forma documentaristica e mostrata in sala attraverso un video.  Ha la stessa funzione l’evocazione del fratricidio biblico di Caino, che sancisce la definitiva perdita della paradisiaca felicità da parte degli uomini. Il racconto della Genesi potrebbe anche rimandare all’idea antica che considerava la storia dell’evoluzione umana come una parabola di “degradazione” e non di “progresso”: l’originaria età dell’oro (mito raccontato da Esiodo o dalla Genesi), in cui la terra offre spontaneamente i suoi frutti, in cui non esiste la navigazione, né il commercio, coinciderebbe con la fase in cui l’uomo viveva di raccolta, di caccia, di pesca; a questa segue, come punizione divina per una tracotanza umana, la condanna del lavoro (il lavoro dei campi e l’allevamento, ma poi anche il commercio) che avrebbe prodotto la divisione in classi sociali, le prime forme di disuguaglianza e con essa la violenza offensiva, il comportamento aggressivo.
Se la psicologia è ancora divisa tra il modello psicoanalitico, che considera l’aggressività un istinto primario, e il modello behavioristico, per cui essa è invece una risposta appresa dall’esperienza nell’ambiente, le ricerche in ambito neuroscientifico stanno progressivamente identificando le aree del cervello che attivano o inibiscono la reazione aggressiva alla paura e alla percezione del pericolo. Dunque l’uomo ha la possibilità della risposta aggressiva per natura e la cultura ha elaborato strategie per incanalarla, attivarla o disinnescarla nel contesto sociale, come il mito esemplifica. Il sacrificio rituale è uno di questi modi.

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disegno realizzato dal vivo da Renzo Francabandera

RF: Il tema del rituale è ovviamente molto presente, e lo spazio sacro è sovente invisibile,  nella parte segreta della scena, deputata a questa funzione. La visione diretta è spesso negata al pubblico, che deve viverla attraverso le riprese di alcune telecamere (l’uso del medium è estensivo ma non invasivo, ricorre in specifici momenti in funzione enfatica). Di questo passaggio mediato della conoscenza dalla camera si è anche spiegata l’intenzione.
Lo spazio del tragico si riempie della recitazione degli interpreti, che entrano ed escono dai personaggi esattamente come in sala prove. “Fermo, aspetta…adesso fai così…prendi il vestito…vieni avanti…non così… più violento” ecc. Insomma il gioco del teatro rivelato al pubblico per consentire quell’avvicinamento ai macro temi che interessano maggiormente al regista. Rifici si sofferma sull’equilibrio fra drammatico e post-drammatico, fra teatrale e metateatrale, in una creazione dal sapore mitteleuropeo nell’impianto ma molto mediterranea nel sentimento profondo, costruita attorno a specifiche del pensiero fondate sulla cultura greca classica, di cui vengono riportate alcune tracce originarie. E’ come se ogni vicenda trovasse tentativo di spiegazione simbolica e di ciascuno di quei simboli venisse poi cercata una sorta di etimologia antropologica condivisa, in cui il pubblico possa ritrovarsi per capire. Un’operazione in qualche caso ardita ma nel complesso interessante, perchè spinge a chiedersi comunque il perchè delle cose, anche oltre qualche passaggio magari un po’ forzato.

MM: Tra le parole simbolo evocate in Ifigenia, liberata, ad esempio, ci sono vendetta e giustizia, che, affermano Rifici e Demattè, in greco hanno la stessa radice. All’idea viene attribuita sicuramente un’importanza determinante ai fini della comprensione dell’impianto concettuale generale del testo, visto che l’assioma viene ripetuto più volte. Uso il termine “assioma” perché l’intenzione pedagogica che ha sostenuto ogni scena, qui si arresta: la frase viene pronunciata in modo assertivo, come un verità nota a tutti, e non viene fornita alcuna spiegazione, né alcun indizio che consenta di risolvere l’enigma.

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disegno realizzato dal vivo da Renzo Francabandera

La radice a cui si fa riferimento è quella del verbo némo, che originariamente in greco antico significa oltre a pascolare, anche distribuire ciò che è dovuto, retribuire, pagare. La sovrapposizione semantica tra il mondo pastorale e il denaro non deve sorprendere poiché anche in latino è attestata la famiglia pecus/pecunia, cioè bestiame/denaro.
Ma torniamo al greco: dal verbo némo deriva il sostantivo némesis, che significa giusta distribuzione, retribuzione, ma anche vendetta nel senso di compensazione a fronte di un torto subito. In fondo anche in italiano si dice “farla pagare” per dichiarare l’intenzione di una vendetta. Ed è proprio da questa ultima sfumatura dell’ambito semantico che trae origine il ragionamento proposto in Ifigenia, liberata: la giustizia, che è il valore supremo della vita politica e sociale, l’anima dello stato secondo Platone, si basa sulla vendetta, cioè sulla disponibilità a compensare un torto fatto e ad accettare la compensazione di un torto subito in base a quanto stabilito dalla legge (in greco antico nòmos, altro termine derivato dalla medesima radice). Del resto, come argomenta Paolo Moro nel saggio Alle origini del Nómos nella Grecia classica. Una prospettiva della legge per il presente, il concetto di nómos già presente nella poesia arcaica, nei filosofi presocratici e poi sistematizzato da Platone e Aristotele, ha natura essenzialmente giudiziale, dialettica, agonistica; la legge “è narrata attraverso il mythos, è fondata sul lógos ed è discussa nella pólis”.

RF: Ecco, questa cosa che hai definito, e che risulta fondante della costruzione filosofica dello spettacolo, forse è (a mio avviso) una delle specifiche utili che nello spettacolo manca. Certo è evidente che uno spettacolo non debba e possa fare l’esegesi di se stesso, né spiegare testo, sottotesto e filosofie, ma questo tema, che nella sostanza argomentativa risulta cruciale, un paio di battute ulteriori poteva meritarle, anche perchè la questione viene proposta proprio in quei dialoghi informali fra drammaturga e regista che sono esterni alla meccanica recitativa dei pezzi di tragedia, che poi, invece, soprattutto nella seconda parte dello spettacolo, ovviamente prendono il sopravvento, riavvicinando al dramma mitologico e riportando appunto a quella necessità di Euripide di  cui si fa menzione. Nel complesso comunque l’operazione nel suo impianto riesce, e riesce anche per l’assoluta eterogeneità della compagine attorale, fatta anche di stili recitativi molto differenti, alcuni più sporchi altri più definiti e impostati, che Rifici comunque piega al suo gioco. L’eterogeneità (comunque di grande qualità e compattezza) diventa componente strutturale del metateatrale, esaltando quella variatio su cui si basa il momento scenico, portando in prima vista le questioni dell’armonia e dell’equilibrio, costitutive dell’impianto mitologico.

MM: La via del mito, infatti, non induce mai alla ribellione, piuttosto conduce la collettività ad  aderire a comportamenti e scelte che favoriscono l’armonia sociale, cioè un rapporto equilibrato tra l’uno e il molteplice, tra il capo/i capi e il popolo. Agamennone deve sacrificare la primogenita Ifigenia per il bene del suo popolo: solo così legittimerà il suo ruolo di capo, che dovrà rilegittimare di nuovo dopo dieci anni, quando l’esercito acheo si ritrova bloccato davanti alle mura di Troia per una pestilenza. Il signore Apollo, dio guaritore e vendicatore, pretende la restituzione al sacerdote Crise di sua figlia Criseide, toccata ad Agamennone come bottino di guerra. Ancora una volta, anche se solo formalmente e simbolicamente, il capo deve accondiscendere alle richieste di un popolo  senza voce, ma che parla per il tramite di indovini e sacerdoti.  Nel mito greco, e nella rielaborazione letteraria e filosofica offerta dalle numerose fonti a cui rimanda la scrittura di Demattè e Rifici, la saggezza e la giustizia sono concetti connessi. O meglio la saggezza è sentire i propri limiti e non superarli; giustizia è sentire i limiti nei confronti degli altri e non superarli. Solo in questo modo si può arrivare all’equilibrio tra i percorsi individuali di vita e la dimensione politica che li sintetizza in esperienze e decisioni collettive.

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RF: Il tema del superare il limite è cruciale nell’equilibrio di costruzione della drammaturgia ma anche dello spettacolo e dei suoi segni. Nel complesso ad esempio il gioco registico riesce a rimanere al di qua della posizione dottrinale anche se ogni tanto la sfiora. Per altro verso la questione dello studio sottostante è comunque fondamentale in questo lavoro, tanto che ad un certo punto tutti i libri che sono alla base della costruzione concettuale e testuale vengono inquadrati, quasi come protagonisti dello spettacolo essi stessi. E certamente in buona parte lo sono. Il mélange di  fonti di ispirazione, che accomuna questa drammaturgia ad altre ricerche sul testo del tempo presente, fra classico e contemporaneo (penso nelle visioni recenti ad Anagoor, alle riscritture dei classici affidate ai Ponzio, Dalisi e Bellini per Latella ecc), per sviscerare temi che magari nella testualità tradizionale sono una parte del tutto. E che invece l’indagine fa esplodere in una ricerca di senso specifica, in una direzione particolare. Ed è quello che Rifici fa. Ma mi pare di poter dire che la questione non sia solo la violenza o la sopraffazione in nome della ragion di Stato.

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MM: La perenne attualità del mito porta a ragionare, attraverso i temi proposti da Ifigenia, liberata, non solo sulla violenza dell’uomo sull’uomo, che oggi si può sintetizzare nel problema della disuguaglianza, della polarizzazione della ricchezza e della disponibilità di risorse, ma anche sulla relazione rapace e aggressiva  del genere umano verso la Natura, che ha condotto la civiltà occidentale/tecnologica al miope sfruttamento delle risorse del pianeta e a modificare e turbare l’equilibrio dell’ecosistema terrestre. Il sentimento del limite dell’uomo nei confronti della Natura, “la percezione delle connessioni profonde che legano il mondo vivente in equilibri fragili e delicati”  (Piero BevilacquaMiseria dello sviluppo, Laterza 2008) è il contributo più alto del paradigma della complessità alla comprensione globale della natura umana e alla ridefinizione dei suoi limiti invalicabili. Così, narrare ancora di Ifigenia, intrecciando miti e fonti, per intessere un canto come avrebbe fatto Omero o Pindaro, è un’operazione necessaria, è un puntello alla memoria e allo stesso tempo un monito a riconoscere il nostro inestinguibile desiderio di oltranza e a non confonderlo con il desiderio di avere di più, fonte primigenia di ogni conflitto e di ogni violenza. Pertanto la parola non detta, ma evocata, la parola bambina, di cui prendersi cura, il messaggio della cultura greca ancora sottovalutato non è compassione, come viene dichiarato nel foglio di sala, bensì misura.

RF: Sono d’accordo su questo aspetto che secondo me rende l’operazione a suo modo necessaria. Anche perchè, richiamando una tua riflessione di qualche tempo fa che penso sempre attuale, il contemporaneo avverte quasi il bisogno di una funzione di mediazione culturale del teatro. Non ha il tempo di conoscere in modo immersivo.
Ma devo dire che in Ifigenia, liberata Rifici cerca, ed è forse la cosa più interessante di tutta l’operazione, una terza via fra i due poli che definivi, secondo me giustamente in quella riflessione, teatro sintetico-estensivo e teatro analitico-immersivo, ovvero, per banalizzare, fra intento divulgativo o di mediazione culturale e intento di ricerca.
Qui gran parte della ricerca è sulla parola, sui testi, sulle fonti, sui concetti, sulla filosofia. Una parte arriva anche agli attori, una parte anche al pubblico. Sicuramente se ne sono nutriti ampiamente le funzioni drammaturgica e registica, e l’impressione è che la cascata di conoscenza arrivi fino in platea, con ondate e potenza adeguate all’intenzione, che si percepisce come onesta.

Ifigenia, liberata

ispirato ai testi di Eraclito, Omero, Eschilo, Sofocle, Euripide, Antico e Nuovo Testamento,
Friedrich Nietzsche, René Girard, Giuseppe Fornari
progetto e drammaturgia di Angela Demattè e Carmelo Rifici
regia di Carmelo Rifici
con (in ordine alfabetico) Caterina Carpio, Giovanni Crippa, Zeno Gabaglio, Vincenzo
Giordano, Tindaro Granata, Mariangela Granelli, Igor Horvat, Francesca Porrini, Edoardo Ribatto, Giorgia Senesi, Anahì Traversi
scene Margherita Palli
costumi Margherita Baldoni
scene realizzate dal Laboratorio di Scenografia “Bruno Colombo e Leonardo Ricchelli” del Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
costumi realizzati dalla Sartoria del Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
maschere Roberto Mestroni
musiche Zeno Gabaglio
disegno luci Jean-Luc Chanonat
progetto visivo Dimitrios Statiris
regista assistente Agostino Riola
assistenti alla regia Emiliano Masala e Francesco Leschiera
assistente scenografa Francesca Greco
assistente costumista e sarta di scena Giulia-Claudia Gambi
in video Maximilian Montorfano, Jacopo Montorfano e Agnese Chiodi

produzione LuganoInScena in coproduzione con LAC Lugano Arte e Cultura, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa e Azimut
in collaborazione con Spoleto Festival dei Due Mondi, Theater Chur con il sostegno di Pro Helvetia, Fondazione svizzera per la cultura, Clinica Luganese Moncucco

Illustrazioni e animazioni Stefano Bruscolini
Collaborazione progetto visivo Alessandro Canali e Giuseppe Bilotti

Personaggi e interpreti
Corifea, Ominide Caterina Carpio
Calcante, Vecchio Giovanni Crippa
Musicista Zeno Gabaglio
Menelao, Ominide Vincenzo Giordano
Regista Tindaro Granata
Drammaturga Mariangela Granelli
Odisseo, Ominide Igor Horvat
Corifea Francesca Porrini
Agamennone Edoardo Ribatto
Clitemnestra Giorgia Senesi
Ifigenia Anahì Traversi