LAURA BEVIONE | Dopo sei edizioni che avevano dimostrato come si potesse parlare di cibo e di arte – non solo teatro, ma anche performance, fotografia, installazioni.- in maniera non scontata, proponendosi così implicitamente quale alternativa al tramortente chiacchiericcio televisivo – ma anche mass-mediatico e social – sulla cucina; il festival torinese Play with Food si prese una rinfrancante pausa di riflessione. Un periodo di riflessione – e di raccolta fondi – che ha generato un’attesa settima edizione che, dall’ 11 al 17 giugno, abiterà spazi non convenzionali di Torino. Per saperne di più, abbiamo intervistato i due affiatati e agguerriti direttori artistici, Davide Barbato e Chiara Cardea.

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La nuova edizione di PWF arriva dopo due anni e mezzo di “assenza”: per quale motivo?

Davide Barbato La classica pausa di riflessione. Contro ogni aspettativa, dal 2010 al 2015 siamo riusciti a mantenere il ritmo e a organizzare sei edizioni, sempre in crescita. Dopo l’ultima edizione è stato necessario fermarsi un attimo per riprendere fiato e per capire dove stavamo andando. Inoltre, il progetto era nato all’interno della mia esperienza lavorativa con i Cuochivolanti, una società di catering che aveva al suo interno molte spinte verso la creatività (io e Roberta Cavallo, co-fondatori dell’attività, venivamo da una decennale esperienza in teatro). Nel 2016 ho deciso di “cambiare” lavoro e di dedicarmi a tempo pieno al lavoro di organizzatore teatrale. E, forse, in quel periodo c’era anche un po’ di stanchezza sul tema del cibo. La pausa è servita a me e a Chiara per rimodulare il progetto in una chiave più affine alle nostre aspettative professionali. Nel frattempo poi, con Chiara ed Elena Serra, attraverso il progetto Edith, abbiamo seguito il percorso Hangar Point [si tratta di un progetto di sostegno agli artisti promosso dall’Assessorato alla Cultura della Regione Piemonte, n.d.r.], che è stato fondamentale per ricalibrare gli obbiettivi e la sostenibilità dei nostri progetti, incluso Play with Food. Insomma, una pausa di riposo e consapevolezza che ci ha permesso di tornare con una settima edizione davvero bella, se possiamo dirlo senza peccare d’immodestia!

Chiara Cardea Avevamo bisogno di un bere un digestivo! Ah ah! Battute a parte, avevamo concluso la precedente edizione in ottobre, nel 2015. Si era svolta in autunno per via dell’Expo e tornare già “in scena” in primavera, nostro periodo consueto, non ci era fisicamente possibile. Ne abbiamo dunque approfittato per prenderci un tempo di pausa e riflettere su quanto avevamo fatto e su quanto avremmo voluto ancora fare. È stato comunque un periodo fervido, perché ci ha permesso di dedicarci ad alcune collaborazioni (4 Case per 2 Ritr’atti, Mantova Food & Science, Festival Architettura in città, Edith’s Party ed Edith’s Tea, Festival Concentrico) e di focalizzarci sul futuro del festival grazie anche al percorso fatto con Hangar Point. 

Quali le difficoltà nell’organizzazione di un festival “indipendente”? Voi non vi appoggiate ad alcuna istituzione teatrale…

D.B. Siamo ancora “indipendenti”, ma dobbiamo ricordare che quest’anno il sostegno di Piemonte dal Vivo è stato fondamentale per poter programmare compagnie come Cuocolo/Bosetti, Frosini/Timpano e Teatro delle Ariette, solo per citarne alcuni. Un sostegno non solo economico ma anche progettuale e umano che per noi è stato strategico in un’ottica di crescita. Credo che questo segnali il fatto che i progetti culturali, arrivati a un certo punto di maturazione, non possono prescindere da un sostegno istituzionale. Detto questo, vogliamo anche sottolineare che più del 50% del budget del festival proviene dal nostro lavoro di fundraising su sponsor privati e da risorse proprie derivate da sbigliettamento. Un lavoro prezioso a cui teniamo molto, perché non solo contribuisce alla sostenibilità del progetto, ma ci permette anche di creare intorno all’evento una rete di sostenitori estremamente coinvolti nella progettualità e negli obbiettivi del festival, come Camera di Commercio con i Maestri del Gusto, sponsor nuovi e importanti come Pastiglie Leone e sostenitori “storici” come il Tomato Backpackers Hotel, Pastificio Bolognese e Luiset.

C.C. Quest’anno in realtà abbiamo un sostegno da parte della Fondazione Piemonte dal Vivo. Per quanto mi riguarda, le difficoltà ci sono ogni volta che ci si mette in gioco. Avere un’idea, anzi l’idea, è solo il primo passo, poi c’è la realizzazione e qui deve entrare in gioco una caratteristica importantissima: la tenacia. Alla tenacia affianco sempre fede, fiducia e santa pazienza.22_DRINK!_Cravero_Tomellini_foto Bruno garetto.jpg

Quali i fili rossi dell’edizione 2018? Quali gli spettacoli da non perdere?

D.B. Senz’altro il filo rosso principale è quello che lega i lavori di compagnie di alto profilo artistico, che ospitiamo in una fase di completo riconoscimento del loro percorso: penso alle Ariette, che festeggiano proprio adesso i vent’anni di attività, o Frosini/Timpano, che nelle ultime stagioni hanno avuto importantissimi risultati, o a Cuocolo/Bosetti, senza dimenticare i Sacchi di Sabbia. Sugli spettacoli da consigliare, resistendo alla tentazione di esclamare “tutti!”, citerei per quanto mi riguarda senz’altro i due spettacoli del Teatro delle Ariette, fosse anche solo per la loro prolungata (e incomprensibile) assenza dalle scene torinesi; poi lo spettacolo notturno di Renato Cravero e Raffaella Tomellini, una performance “alcoolica” ispirata ai racconti di Carver; e ancora le pillole culinarie di Giorgia Goldini, che amiamo molto, in un contesto molto particolare come piace a noi, il Caffè Moderno.

C.C. Quest’anno il filo rosso è il teatro, credo che in questo senso l’artwork 2018 realizzato per noi da Jedi Studio sia decisamente calzante. All’interno di questo macro-tema abbiamo scelto in primis di tracciare un percorso che ci permettesse di volgere lo sguardo verso chi storicamente, in tempi non sospetti, iniziò ad affrontare il tema del cibo, della convivialità e dello spazio privato reso pubblico. Tutti temi a noi molto cari. Abbiamo poi arricchito la programmazione con altri spettacoli di compagnie riconosciute a livello nazionale cercando di spaziare tra i generi e le modalità di fruizione. Sono molto soddisfatta del lavoro fatto con Davide Barbato e credo sinceramente che il pubblico dovrebbe gustare tutte le portate di questo nostro ricco menu.

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Nelle edizioni passate era evidente la volontà di contaminare linguaggi e arti: sarà ancora così?

D.B. Quest’anno abbiamo voluto dedicarci a una programmazione principalmente teatrale, ma la vocazione multidisciplinare del festival resiste: abbiamo infatti accolto in programma Leftovers#002, un’installazione site specific dell’artista Grazia Amendola, curata in collaborazione con Spazio Ferramenta e visitabile negli affascinanti spazi sotterranei del Ristorante Sibiriaki. E poi, naturalmente, l’immancabile Cinecolazione della domenica mattina.

C.C. Per quel che mi riguarda ogni anno è un capitolo nuovo: la programmazione è frutto di elucubrazioni, ispirazioni e un pizzico d’istinto. Quest’anno abbiamo percepito che era importante focalizzarsi sul teatro, ma questo non definisce un nuovo assetto del festival. Abbiamo comunque mantenuto il cinema: la Cinecolazione è un evento a cui siamo molto affezionati e che troviamo assolutamente azzeccato come appuntamento conclusivo di un festival come il nostro. La contaminazione e la multidisciplinarietà restano aspetti che mi solleticano molto, non escludo quindi che in futuro non riprogrammeremo anche musica, danza e arti visive.

Ma cos’hanno in comune teatro e cibo?  

D.B. Molto più di quanto si possa pensare. Per me è principalmente una dinamica esecutiva: cibo e teatro sono accomunati dalla necessità di un “qui e ora”, da un’esistenza che dipende dalla presenza di uno spettatore, o un commensale, che possano ricevere e assimilare quanto viene imbandito da un cuoco, o da un performer.
C’è una dimensione di dono, partecipazione e condivisione che forse oggi resiste veramente solo in teatro e in cucina. E poi anche la dimensione della precarietà, dello spreco, della meravigliosa inutilità: cuochi e teatranti lavorano a lungo e duramente per produrre un’opera che in pochi istanti svanisce. La sua qualità e ciò che ha provocato sono ciò che rimarrà negli occhi, nella mente, nel cuore… e nello stomaco.

C.C. La messa in scena. La condivisione. La cura.

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