ANTONIO CRETELLA | La politica forgia e forza il linguaggio ai propri fini. È l’essenza stessa di un’attività che si basa, da che se ne ha traccia storica, sulla retorica e sull’oratoria, sull’arte della persuasione, sulla fallacia logica e sulla coloritura etica delle parole, insieme di aspetti che l’odierna filosofia del linguaggio racchiude nel fenomeno dello neolingua, repertorio delle invenzioni o delle storture linguistiche che la politica usa per modellare la visione del mondo degli elettori.
La dettagliata nomenclatura utilizzata per fare gesuitiche distinzioni tra i diversi tipi di migranti è una di queste: denominazioni neutre nate in ambito georgrafico per distinguere le cause delle migrazioni diventano marchi etici che creano una spietata classifica dei disperati. Si veda ad esempio la sfumatura detestabile che ha assunto la locuzione “migrante economico”, in origine indicante chi si sposta per ragioni economiche, e quindi, alla lettera, applicabile anche agli italiani che trovano lavoro all’estero, ma che nel linguaggio politico sembra apparentarsi all’idea di avidità, di ladro di risorse, specie in contrapposizione con i termini “rifugiato” e “richiedente asilo”. Come se morire di fame, invece che di guerra, fosse tutto sommato una morte accettabile.
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