LAURA BEVIONE | Supercontinent2 è il titolo scelto per la XXXVIII edizione di Drodesera, approfondimento della riflessione innescata l’anno passato e proseguita per cammini inattesi tanto da tramutarsi in articolato progetto artistico. Non soltanto un titolo emblematico, dunque, ma l’indicazione immediata di una fluida continuità con l’edizione precedente, denominata Supercontinent 1.

Il disegno di nuove configurazioni del pianeta Terra, una replicata deriva dei continenti che sappia rimescolare e generare forme inedite ma altresì un’idea rinnovata del concetto di festival, non semplicemente vetrina/rassegna, bensì incubatore di pensieri e immaginari.

Su queste basi – legittimamente ambiziose – si è fondato il cartellone del festival, diretto da Barbara Boninsegna con Filippo Andreatta e incentrato, da una parte, su un’indagine concernente forme e linguaggi delle performing arts e, dall’altra, sull’invenzione di paesaggi alternativi alla sovente desolante realtà – non una fuga, tuttavia, ma una progettualità concretamente utopica.

La stessa realtà del palcoscenico, nota e scontata, viene perlustrata quale terra straniera, messa in discussione e reinventata: avviene con Germinal, spettacolo creato nel 2012  dai francesi Halory Goerger e Antoine Defoort e meritoriamente portato alfine in Italia da Boninsegna/Andreatta. In scena quattro performer esplorano lo spazio del palcoscenico e acquistano graduale consapevolezze delle proprie capacità comunicative.

In mano una piccola consolle, scoprono che con essa possono attivare i sovrattitoli che, inaspettatamente, riescono a esprimerne istantaneamente i pensieri. Il fortuito ritrovamento di un microfono – ben celato sotto le assi del palco, che sono state spezzate a colpi d’ascia –  dona ai quattro la facoltà di pronunciare parole. Intanto dal palco viene estratta, insieme a varie “macerie”, una chitarra e i performer s’impegnano in un esilarante brainstorming allo scopo di riordinare in categorie oggettive quanto sperimentato fino a quel momento. E, ancora, la volontà di ripercorrere l’evoluzione delle scienze, economia e sociologia comprese, e la scoperta di un portatile di cui sono testate le differenti potenzialità.

Halory Goerger e Antoine Defoort realizzano uno spettacolo indubbiamente meta teatrale ma la riflessione su meccanismi e linguaggi della scena è collocata in un orizzonte filosofico-antropologico ben più complesso. Il palcoscenico – evidente metafora della realtà – viene ispezionato e, letteralmente, distrutto e rioccupato originalmente così da creare un microcosmo a immagine della propria sensibilità. Linguistica, filosofia, semiotica, storia della scienza vengono poste al servizio di un’ingenua – ossia “vergine” – indagine e ricostruzione della contingenza, tanto nei suoi aspetti fisici quanto in quelli “metafisici”, in uno spettacolo la cui apparente naturalezza, ovvero leggerezza, sa stringere l’attenzione degli spettatori, conducendoli a guardare e a in giudicare maniera differente quanto li circonda.

Un concreto invito a modificare la prospettiva da cui si osservano gli altri è, invece, Conversation without words, performance ideata da Lotte van den Berg e da Daan ‘t Sas nell’ambito del progetto Bulding Conversation. Due ore e 5 minuti senza pronunciare una parola, dieci persone sedute in cerchio in una radura nel parco delle Marocche, sopra la Centrale Fies. Alcuni si conoscono, altri no, si guardano negli occhi, si sorridono più o meno imbarazzati, replicano involontariamente il gesto dell’altro, si offrono un bicchiere d’acqua o un dattero.

All’inizio, la tentazione di abbassare lo sguardo ovvero di lasciare che vaghi fra alberi e montagne; o, ancora, la curiosità di spiare le conversazioni attivate dagli altri. Poi, l’incontro con gli occhi di un altro costringe a iniziare un dialogo, rigorosamente silenzioso: c’è chi non riesce a trattenere le risate – frutto del disagio causato dalla nuova situazione -, chi si commuove e chi vorrebbe alzarsi e abbracciare il proprio muto interlocutore. C’è chi osserva con viva curiosità l’altro, cercando di scoprire qualcosa di più sulla sua esistenza; chi si pone con seriosità, assumendo quasi un’aria di sfida; chi rifugge iterati tentativi di approccio e preferisce fissare lo sguardo sul panorama salvo poi dialogare con la persona con cui è venuto alla performance.

Partecipare, in effetti, richiede concentrazione e impegno e d’altronde, quella cui si sta partecipando non è soltanto una performance collettiva, quanto una vera e propria pratica politica, in quanto tenta di immaginare e mettere in atto modalità di convivenza altre. Una pratica che, pur dolcemente, obbliga a rinunciare a ruoli sociali prestabiliti per svelarsi anche nella propria solitamente ben celata vulnerabilità che, qui, nondimeno, riesce a tramutarsi in consapevole accettazione di sé e dunque in forza.

Una pratica cui non si è abituati e che in una qualche misura spinge a risettare modalità di approccio e comunicazione con gli altri usuali e mai messe in discussione. Un’esperienza dalla quale non si esce con facilità: ecco allora che, terminate le due ore e cinque minuti, le parole escono con fatica, a strattoni, e la passeggiata per tornare al parco della Centrale inizialmente rimane silenziosa. Si mangia qualcosa insieme, si beve una tisana ed ecco che la conversazione si fa di nuovo fitta e fluida, probabilmente più schietta e vera.08_Building Conversation_photo credits Alessandro Sala per Centrale Fies

Lo sforzo di concentrazione richiesto da Conversation without Words appare sicuramente immane agli occhi di Teatro Sotterraneo che incentra il proprio Overload proprio su una riflessione sulla capacità di attenzione, a partire da David Foster Wallace e dal suo ultimo romanzo, Il re pallido.

Claudio Cirri lo porta in scena e ne rievoca l’ultimo giorno di vita; allusioni ai suoi romanzi e scritti così come alle sue interviste punteggiano lo spettacolo che, nondimeno, viene interrotto a intervalli non regolari da “contenuti extra” che il pubblico è chiamato ad attivare o meno, semplicemente alzandosi. Ma a un certo punto D.F. Wallace ha cambiato connotati e, dopo poco, è stato sostituito da Stephen King. Poi tutto cambia di nuovo e i cinque performer sono in auto, di ritorno a casa dopo una replica che, forse, è stata l’ultima.

Con la scaltrezza, l’ironia e il sorridente gusto del grottesco che li caratterizza, i Sotterraneo mettono in scena quanto quotidianamente ci perdiamo a causa della nostra rapsodica attenzione e della nostra ansia di accumulare azioni e parole. Una performance forsennata ma accuratamente meditata, con un finale che cancella le risate e costringe a ripensare da un altro punto di vista a quanto si è visto nei cinquanta minuti precedenti. E anche ad andare a (ri)leggere David Foster Wallace…OLYMPUS DIGITAL CAMERA

Un invito a letture vivificanti è pure contenuto in By Heart, la performance orchestrata dal portoghese Tiago Rodrigues che, con la scusa di insegnare “a memoria” – purtroppo la traduzione italiana dell’espressione “by heart” ne perde il significativo riferimento al cuore/anima – il sonetto numero 30 di Shakespeare a dieci volontari individuati fra il pubblico, distende un’accorata orazione – punteggiata da innumerevoli digressioni, colte ma pure non superficialmente sentimentali – sul valore politico, filosofico, “umano” della letteratura.

Un’azione ispirata a quanto fece la vedova del poeta russo Osip Mandel’stam, che chiese a dieci amici di imparare a memoria ciascuno una poesia del marito, la cui opera era stata bandita del regime stalinista; ma anche a quanto avrebbe fatto la nonna di Tiago stesso seguendo l’esempio del protagonista di Fahrenheit 451. Una fiducia nella parola letteraria e nella sua forza etica che attraversa la performance del portoghese che, affabile e disinvolto come uno scafato entertainer, dirige il pubblico in una sorta di rito ateo, realmente comunitario e coinvolgente.

La letteratura quale unica e vera consolazione dunque – ricordiamo che, durante i lunghi anni di prigionia a Robben Island, Nelson Mandela quotidianamente ritornava alla sua copia delle opere complete di Shakespeare –  ma anche efficace mezzo di lotta ai soprusi e alla violenza. Ricordiamocelo in questi tempi bui…

La letteratura certo, ma anche la musica può diventare strumento politico, come suggerisce la breve performance proposta dall’artista visiva di origini irachene Urok Shirhan, che lo scorso anno fu una delle vincitrice di Live Works. Il suo Empty Voices ci è parso quale prima tappa di un lavoro più articolato che, partendo dalla propria biografia di piccolissima migrante in Olanda, indaga sui concetti di lingua madre e lingua seconda così come sul rapporto fra musica e parola. Una performance ancora in fieri che, se saprà affrancarsi dall’autorefernzialità dell’insistito autobiografismo, riuscirà a ottenere sfaccettata e originale efficacia.

Obiettivo, quest’ultimo, pienamente raggiunto da Jacopo Jenna con il suo If, If, If, Then, realizzato con la fondamentale collaborazione della compositrice Caterina Barbieri che, dal vivo, accompagna i tre eclettici e incisivi danzatori.

La danza contemporanea dialoga con l’hip hop e con la danza urbana: non ci sono contenuti altri, bensì l’accostamento e l’interpolazione di sintassi e lessici differenti allo scopo di metterne alla prova la capacità di intessere un dialogo originale. Partendo da Darwin, Jenna mira a testare la flessibilità e l’adattabilità della danza, la sua attitudine alla metamorfosi e alla reinvenzione che ne assicura una sopravvivenza non passiva.

Una coreografia attraversata da costante e ritmica energia: i danzatori si muovono a lungo a terra, poi in piedi, singolarmente per la maggior parte del tempo, spesso vicinissimi agli spettatori, accomodati in cerchio. Nella seconda parte, i tre si osservano, si studiano, si rincorrono fino a riunirsi in un passo a tre che disegna una sorta di tessitura, con le braccia a creare trama e ordito di un tessuto fatto di corpi e movimento.

Uno spettacolo di danza pura, caratterizzato da potenza e coinvolgimento nell’interpretazione.07_Jacopo Jenna_If, If, If, Then_courtesy l'artista

E alla danza affianca, invece, un ambizioso discorso drammaturgico Marco D’Agostin nel suo Avalanche, di cui il coreografo è anche interprete con Teresa Silva.

La coreografia – astrazione e geometria anziché armoniosità e fluidità – è accompagnata dalla parola: i due non articolano un discorso coerente, bensì declinano infiniti elenchi, enumerazioni di oggetti e situazioni, sentimenti e paesaggi, ricorrendo a ben cinque lingue diverse.

Un disegno coreografico assai interessante, in particolare per il suo svincolarsi da schemi ovvero pratiche già date così come per la perizia tecnica e per l’espressività non convenzionale. Meno riuscito, invece, ci è parso il discorso drammaturgico, che risulta forzato e si realizza quale puro gioco formale, senza reale necessità.

Danza e parola procedono così lungo strade parallele senza mai incontrarsi realmente: rimangono distinte e autonome e la drammaturgia, inevitabilmente, soccombe, sconfitta dalla danza, essa sì inventiva ed efficace, capace di veicolare anche significati ulteriori oltre al puro gesto fisico.

Centrale Fies, Dro (TN), 25-26-27 luglio 2018

www.centralefies.it

GERMINAL

Ideazione e regia Halory Goerger, Antoine Defoort

Luci Sébastien Bausseron, Alice Dussart

Suono Robin Mignot, Régis Estreich

Interpreti Arnaud Boulogne, Beatriz Setién, Antoine Defoort, Sébastien Vial

Produzione La Biennale de la Danse de Lyon, Kunstenfestivaldesarts, le Phénix-Scène nationale de Valenciennes, Buda Kustencentrum, ecc.

AVALANCHE

Coreografia Marco D’Agostin

Costumi Eva di Franco

Luci Abigail Fowler

Suono Pablo Esbert Lilienfeld

Interpreti Marco D’Agostin, Teresa Silva

Produzione Rencontres Choréographiques de Seine-Saint-Denis, VAN, Marche Teatro, CCN de Nantes

IF, IF, IF, THEN

Ideazione, regia e coreografia Jacopo Jenna

Musica dal vivo Caterina Barbieri

Direzione tecnica e disegno luci Giulia Broggi

Interpreti Nawel Nabù Bounar, Sly, Andrea Dionisi

Produzione KLM-Kinkaleri, Le Supplici, MK; coproduzione con Centrale Fies, Danae Festival; col supporto di Bolzano Danza

CONVERSATION WITHOUT WORDS

Ideazione, sviluppo, esecuzione Lotte van den Berg, Daan ‘t Sas

Produzione Third Space

EMPTY ORCHESTRA

Scrittura, regia, interpretazione Urok Shirhan

Produzione Centrale Fies all’interno del programma Live Works Performance Act Awards vol. 5

OVERLOAD

Ideazione e regia Sotterraneo

Drammaturgia Daniele Villa

Costumi Laura Dondoli

Luci Marco Santambrogio

Sound design Mattia Tuliozi

Interpreti Sara Bonaventura, Claudio Cirri, Lorenza Guerrini, Daniele Pennati, Giulio Santolini

Produzione Sotterraneo; coproduzione Teatro Nacional D. Maria II; contributo Centrale Fies, CSS Teatro stabile di innovazione FVG

BY HEART

Scrittura e interpretazione Tiago Rodrigues

Scene e costumi Magda Bizarro

Produzione Teatro Nacional D. Maria II; coproduzione O Espaço do tempo, Maria Matos Teatro Municipal