ELENA SCOLARI e RENZO FRANCABANDERA | ES: Suono di rimbalzi. Una parete rossa, un canestro disegnato col gessetto.
Nessuna pietà per l’arbitro di Centro Teatrale MaMiMò disegna col gessetto la storia di una famiglia: madre, padre e un figlio. Sagome. Un figlio di vent’anni che la donna ha avuto giovanissima da un uomo che non è il suo attuale marito: il trentacinquenne Giuseppe, storico e ricercatore universitario, stipendio scarso. La donna è incinta, ha un lavoro che probabilmente perderà quando il datore scoprirà che è in gravidanza; il figlio ventenne è disoccupato e non particolarmente concentrato sul trovare un’occupazione che non sia il basket.


Quello che i tre hanno in comune è proprio la passione per questo sport, tanto che Giuseppe e il ragazzo giocano nella stessa squadra e tutti indossano l’uniforme da giocatori di pallacanestro. Stanno giocando la loro partita con la vita?

Moglie e figlio portano queste stesse parole sul retro delle loro maglie; dove di solito sta il nome loro portano una “qualifica”, che sembra essere la loro cristallizzazione, il ruolo nel quale si trovano fissati. Anche se la donna è decisamente più madre che moglie.
L’unico che ha il suo nome è Giuseppe (Luca Mammoli), il personaggio che forse più ci dice di sè. Di lui sappiamo che aveva un nonno importante impegnato nella Resistenza e il suo spirito sta influenzando il compito che lo storico/cestista sta faticosamente cercando di svolgere: scrivere un discorso per il 2 giugno, festa della Repubblica.

RF: Emanuele Aldrovandi racconta un sistema di identità un po’ lacaniano, in cui l’esistenza nasce dall’essere in relazione con. Il proprio ruolo, specialmente in ambito familiare, nasce dalla relazione. Sarà che il lavoro precario e la dipendenza economica filiale allungano l’ombra della famiglia oltre l’adolescenza e si resta legati al ruolo oltre l’identità? E c’è una generazione che non si riesce più a liberare?

ES: Lacan sta vivendo un momento d’oro, da quando Massimo Recalcati è finito in tv…
Benché questo aspetto storico-sociale sia un punto che pare rimanere a latere di ciò che vediamo avvenire sul palco, è in realtà (o meglio sarebbe, a mio avviso) uno dei nodi che il testo di Aldrovandi cerca di affrontare: il sincero Giuseppe confessa di non avere niente da dire sull’anniversario della Repubblica, che è senza dubbio un bell’atto di consapevolezza. Ma Aldrovandi invece cosa ci vuole dire facendogli citare Togliatti, Saragat e De Gasperi, così, senza nessun appiglio né storico né drammaturgico e buttando i loro nomi nella rete del canestro che li fa ricadere fuori senza conseguenza alcuna?
La sensazione è che a nessuno dei personaggi importi sapere chi fossero i padri costituenti, ma nemmeno all’autore provare a scuotere questa indifferenza.

RF: Devo dire che su questo la mia lettura è un po’ diversa. Questi soggetti sono un po’ un’Italia in miniatura. L’intellettuale sinistrorso figlio di padri nobili ma che non riesce più a dar ragione di sé; l’acerbo adolescente che non sa dire cosa vuole ma intanto inguaia, con azioni dalla portata irreversibile; il detentore del potere che lo esercita in maniera sorda e autocratica e la moglie che fa prevalere l’azione sulla ragione. Onestamente ho sempre letto una cifra politica in filigrana nelle scritture di Aldrovandi, che viene metaforizzata, impersonificata, resa personaggio, per non essere didascalica. Ma io, di questi padri di cui conosciamo il nome ma non ricordiamo più bene cosa hanno fatto, ho una sensazione molto vivida. Perchè sono stati un dato di fatto della mia infanzia. Del mio agire sociale e politico da ragazzo. Ma penso che molti non sappiano o non ricordino più chi erano, cosa hanno fatto e perché gli dobbiamo qualcosa.

ES: Una sensazione vivida di qualcuno di cui non ricordiamo le azioni? Noi – e chi è più giovane di noi – siamo quello che siamo anche grazie agli antenati, ma se non ne abbiamo coscienza poggeremo sempre su un terreno sdrucciolevole. Ma non vorrei allontanarmi troppo dal campo…

C’è poi un incidente, che dà l’avvio a ciò che diventerà centrale nello spettacolo: durante una partita il figlio subisce un fallo, non fischiato, e il fallo gli procura la rottura del braccio. Chi non ha fischiato il fallo è appunto l’arbitro, per il quale non ci sarà nessuna pietà, come si dice nel titolo. Questo personaggio entra in scena solo a un certo punto, creando scompiglio e provocando situazioni che sfiorano anche il comico, qui e là, gag tra il serio e il maldestro.
Non svelo il plot nel dettaglio perché è la sorpresa dello spettacolo. L’incidente crea però una circostanza in cui i tre si trovano a dover prendere una decisione sul quarto uomo (l’arbitro), e si scontrano su quale scelta prendere, su cosa far prevalere tra giustizia e interesse, evidenziando diverse prospettive e rivelando ognuno qualcosa di sè.
In Nessuna pietà per l’arbitro si parla, a partire da questo spunto, di potere, di regole, di etica, di morale, di assenza di ideologie, dalle quali però non riusciamo (autore compreso) a liberarci completamente, come se ne avessimo ancora bisogno e come se potessero essere – o tornare ad essere – ancora oggi un perno, o meglio un pivot.
Più che altro se ne accenna, sfiorando tutti questi bellissimi macro-temi come con un piumino per la polvere, nulla di nuovo ci viene detto, poche riflessioni emergono dalla confusione dei tre su come agire, e nessuna davvero stimolante.

RF: Probabilmente se alcuni segni di minor peso fossero stati eliminati, la cifra della condizione umana di questi personaggi sarebbe venuta fuori in modo più nitido, mentre così resta l’idea di una nebulosa di questioni che rende meno intelligibile il filo rosso. O ex rosso, ora in crisi d’identità. Senza dubbio.

ES:  La regia doppia di Marco Maccieri e Angela Ruozzi è ancella del testo, un atteggiamento “imparziale” che non muove più di quanto si dice. Ci si aspetta dagli attori esattamente quello che fanno, si passano palloni presi da una cesta e la scansione ritmica iniziale torna nella chiusura del lavoro ma l’attenzione dello spettatore va principalmente al testo.
Mammoli è attore sicuro e risulta il più sfaccettato, Filippo Bedeschi/figlio è incattivito al punto giusto, la moglie/madre Federica Ombrato è costantemente nervosa, un po’ appiattita sulla nevrastenia, e Alessandro Vezzani/arbitro mantiene un tono abbastanza estraneo alla compagine che lo ha in pugno, rimarcando che il suo carattere rappresenta ciò di cui si va discutendo: sublimare una frustrazione in un piccolo potere meschino che dà l’illusione di tenere nel fischietto il destino altrui.

RF: Esatto: diciamo che questa tua sintesi riporta agli archetipi sociali che Aldrovandi disegna, anche se poi, vuoi per colpa del testo, vuoi per la logica dei personaggi stessi, ovviamente quello più rotondo e in bassorilievo è Mammoli, le cui capacità recitative creano un ulteriore spazio interstiziale con le altre figure, creando una disuguaglianza troppo marcata con gli altri personaggi poco sviluppati, anche per scelta, forse. Se vuoi raccontare la complessità del sociale, non può essere solo l’eredità della Storia a definire la maggior o minor rotondità dei caratteri.

ES: Sì, ma anche questa eredità è solo frettolosamente accennata.
È interessante che un drammaturgo trentenne si interroghi sul mondo post-ideologico, vagheggiando forse (inconsciamente?) il ritorno di grandi ideali che – se non altro – offrivano una geografia chiara seppur priva di autentica libertà. La mancanza di pilastri nuovi impedisce una nuova morale, che in Nessuna pietà finisce per essere ancora legata alle pietre miliari intorno alle quali si pensa da millenni. (Millenni veri, non quelli che il nostro vicepremier attribuisce generosamente alla ben più giovane democrazia francese).

RF: Aldrovandi ha scritto un testo politico, solo che non si è spinto fino a rendere l’operazione intelligibile. Le metafore ci sono, solo che sono troppo nascoste. O siamo noi che siamo della generazione di Giuseppe e vorremmo una spinta politica? Oddìo non è che alla fine cerchiamo il teatro brechtiano che svegli le coscienze e suggerisca? Non voglio dire un cartello, ma almeno un cartellino dell’arbitro…

ES: Ma magari! C’è senz’altro un modo nuovo di fare teatro politico, dopo Brecht, ma non credo sia, ancora una volta, lamentando che non sappiamo che pesci pigliare. Troviamo altri pesci!
Il suggerimento è solo sussurrato, la figura dell’arbitro, che arbitrariamente decide per mestiere, finisce per andarsene togliendo l’impaccio, senza che gli altri tre abbiano saputo agire nei suoi confronti scegliendo attivamente una strada. Forse avrebbero dovuto appellarsi al Var.

 

NESSUNA PIETÀ PER L’ARBITRO
di Emanuele Aldrovandi
con Filippo Bedeschi, Luca MammoliFederica Ombrato, Alessandro Vezzani
regia Marco Maccieri, Angela Ruozzi
scene Antonio Panzuto
disegno luci Silvia Clai
costumi Rosa Mariotti
con la consulenza scientifica del prof. Marco Giampieretti
produzione Centro Teatrale MaMiMò

spettacolo vincitore del Premio del pubblico al Festival di Resistenza 2017
spettacolo finalista InBox 2018
spettacolo selezione Visionari Kilowatt Festival 2018

21 febbraio 2019, Teatro dei Filodrammatici di Milano

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