LEONARDO DELFANTI | Un giovane uomo è rannicchiato su due sedie, intirizzito dal freddo, coperto solo dalla sua giacca: un senza tetto, uno sbandato; oppure un uomo nei pressi di un’area transiti in attesa di poter prendere l’ennesimo aereo. Ecco come si presenta From Alf to… between Lam and Mem di Mounir Saeed, spettacolo andato in scena al Festival Danza in Rete OFF, nella cornice storica dell’Odeo del Teatro Olimpico di Vicenza.

Mounir Saeed giunge al festival grazie a Focus Young Mediterranean, Middle East and Asia Coreographers. Si tratta di una rete voluta dal MiBAC per sostenere la mobilità dei giovani coreografi nel bacino del Mediterraneo e nell’Asia, specialmente quella Medio Orientale, al fine di favorire uno scambio di pratiche performative tra gli artisti ospitati e quelli italiani.
Saeed, selezionato assieme ad altri interpreti, ha deciso di presentare una riflessione proprio sul tema della mobilità.

Il giovane uomo si è appena risvegliato, il caos della globalizzazione lo avvolge. Mounir si trova in quello che l’antropologo Marc Augè, definisce un non-luogo: uno spazio di transito standardizzato, privo di un’identità precisa perché non pensato per essere abitato. I non-luoghi sono centri commerciali, campi profughi, autostrade, aeroporti… Spazi indefiniti, attraversati da uomini e merci esclusivamente a fine commerciale: ogni essere animato o inanimato, per potervi transitare, ha esclusivamente bisogno di un codice identificativo e una destinazione altra. L’uomo è quindi cliente e fruitore dello stesso spazio, impossibilitato a lasciare un segno di sé, obbligato a usufruirne.

Una volta sveglio, Mounir cerca di creare una propria identità nello spazio che lo separa dall’imbarco.
Alf, la prima lettera dell’alfabeto arabo, l’inizio del nuovo giorno, come dello spettacolo, diventa la forma dei suoi pensieri, che scorrono tra un caffè, una sigaretta e un po’ di stretching per iniziare la giornata, scrollandosi di dosso le ore di riposo malsano.

Nel non-luogo l’uomo si spersonalizza: il contatto con altri esseri umani si riduce a conversazioni accennate, l’interesse per l’altra cultura semplicemente non trova né tempo né luogo cosicché il discorso, la danza, il pensiero non possono che essere solipsistici, dissociati.

Le reazioni a questa valanga di input sterili portano le sue riflessioni, che ascoltiamo come voce fuori campo, a oscillare senza soluzione di continuità: come Munir stesso spiega nell’incontro che segue lo spettacolo, con le tre lettere Alf (A), Lam (L) e Mem (M) in arabo si possono comporre sia la parola “speranza” (Aml), che quella “dolore” (Alm).
Il titolo stesso dell’opera From Alf to… between Lam and Mem suggerisce l’impossibilità di sviluppo della lingua, e quindi della cultura di Mounir, a contatto con la massa incontrata in aeroporto.

Questo altalenarsi privo di consequenzialità è emblematicamente rappresentato dalla scelta della partitura musicale: Fever Ray, Johnny Cash, Anoice, Miriam Makeba e Maurice Louca più che narrarci di un incontro tra culture, paiono la frenetica scelta dello “skipping” di Spotify di una persona che ha avuto, sì, contatto con diverse scene musicali ma che non sa a quale porre orecchio per trovare pace.
Così anche la scelta del movimento diviene un insieme disgiunto di azioni teatrali e coreografiche apparentemente non collegate. Un insieme di gesti raffinati e definiti si disgrega e si compone indistintamente sulla traccia mnestica o a seguito di una riflessione, passata come una meteora, dopo aver chiesto l’ora all’ennesimo sconosciuto.
L’azione scenica diventa un concatenamento fluido di gesti fortemente espressivi e coerenti che all’improvviso, perdendo di dinamica, si sbriciolano nel vuoto mentre il performer sgretola rumorosamente un chupa chups al solo scopo di agire nel nulla.
Movimento perenne, ma sostanzialmente statico: «E’ un cerchio che ritorna», ammette Mounir nel dibattito.

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La dissociazione tra gesto e intenzione è talmente forte che sembra di vedere, al posto degli splendidi affreschi del Teatro Olimpico, una scenografia composta da led, gadgets e schermi illuminati. Tutti simboli che bombardano perennemente Saeed, angosciato per la situazione in cui si trova tanto quanto per gli spostamenti a venire e che, sfinito, trova nelle sedie che lo hanno accolto per la nottata il rifugio scomodo nell’attesa del suo volo.

Lui, figlio di una tradizione, quella araba, di mercanti e pellegrini, raffinati esploratori del mondo umano, celebri per acutezza di spirito e raffinatezza di costumi, si trova oggi, per vivere della sua opera, a non viaggiare ma a transitare da un festival all’altro in balia della burocrazia come dei sentimenti.
Perfettamente conscio, che, come scrive il drammaturgo Stefan Zweig, «Una volta l’uomo aveva un’anima e un corpo, oggi ha bisogno anche di un passaporto, altrimenti non viene trattato da essere umano».

Da pellegrino a nomade, da arabo a cosmopolita, l’uomo percorre solo migliaia di chilometri divorando le proprie energie per poter mettere in scena l’opera-merce che non parla più di un mondo esotico e affascinante ma di una società che vuole omologare l’identità storica a prodotto da divorare e non da preservare.

FROM ALEF TO… BETWEEN LAM AND MEM

di e con Mounir Saeed
voci registrate Amr Abd El Aziz
musiche Fever Ray, Maurice Louca, Johnny Cash, Anoice, Miriam Makeba
editing musicale Mounir Saeed

Odeo del Teatro Olimpico di Vicenza
6 marzo 2019

Danza in Rete Festival 2a edizione – Danza in Rete Off