ELENA SCOLARI | Con tutta probabilità il pittore fiorentino Cimabue (alias Cenni di Pepo) non avrebbe amato abitare dentro la torre che a Brescia porta il suo nome; è però assai curioso che l’architetto progettista di questo super condominio si chiamasse Leonardo Benevolo. E di fronte c’è pure la gemella Tintoretto. Che ironia.
Sedici piani di cemento e centotrentotto appartamenti per ciascuna torre, nel quartiere San Polo di Brescia: strutture costruite tra il 1979 e il 1983. La Torre Cimabue è ancora abitata, per il 60% circa, mentre Tintoretto è stata svuotata dall’unica giunta di centro destra che ha governato Brescia negli ultimi anni.


Il gruppo Teatro19 ha pensato di usare alcuni spazi della Torre per uno spettacolo, nell’ambito del Metamorfosi Festival, in corso in questi giorni e giunto nel 2019 alla quinta edizione, sotto la direzione artistica di Francesca Mainetti; per PAC ho seguito (e trovato) D.IO o dell’inferno quotidiano. Niente meno, già.
Una vera e propria visita guidata nei corridoi, sulle scale, in alcune stanze e aule dentro al gigantesco paradiso del calcestruzzo che si staglia netto e popolare sopra di noi.

Un gruppo di una ventina di persone è accolto dai primi versi infernali di Dante cantati con la fisarmonica da Francesca Mainetti (multiforme per la sua duttilità) , quattro angeli ci indicano poi la direzione per trovare il nostro Virgilio/portiere pugliese (Nicola Stella), che si presenta con un prologo in dialetto strettissimo (di cui capiamo solo un poco) e con un breve rap in rima; una signora impellicciata (Valeria Battaini, in tutta la sua divina casalinghità), con scarpe rosse fuoco e forte accento veneto ci aveva poco prima a lui affidati per introdurci nel ventre cementizio di Cimabue.
Il nostro scopo è conoscere il marito della siòra: D.IO. Sì sì, puntiamo in alto. «Non pensavate che potesse vivere qui? Ma non vi hanno insegnato al catechismo che Dio è in tutte le cose?», ci dice. E in tutte le case, anche.


La visita si snoda in quadri e altrettante stanze (anche all’aperto) dove incontriamo abitanti dell'”inferno quotidiano” cui stiamo rendendo visita: una donna di bianco vestita che deve decidere se partire con l’uomo che amò trent’anni prima (ispirata a La donna del mare di Ibsen); un maestro (Nic) che fa lezioni sulla morte; una madre con la pipa preoccupata per tutti i suoi piccoli figli (Roberta Moneta); e finalmente la stanza dei bottoni: musichetta di videogame, Dio (Daniele Gatti) sta giocando a Tetris. Sì perché il suo compito è  controllare gli affitti, le locazioni del condominio, insomma tenere in ordine le cose.
Ci riceve con un certo fastidio e, anzi, ci accusa di essere lì solo per fare turismo in un luogo di degrado, tanto noi poi ce ne andremo e lasceremo lui a governare questo microcosmo.

Oltre al luogo scelto per questo percorso c’è una seconda particolarità: una parte degli attori è composta da persone con problemi psichiatrici, chi collabora con loro li chiama “utenti”. La cosa bella è però che avrei anche potuto non dirvelo, in fondo, se non per sottolineare la cura e la passione con cui Valeria Battaini, Francesca Mainetti e Roberta Moneta lavorano a queste difficili e preziose costruzioni artistiche.
Dal punto di vista teatrale si possono intuire alcune delle difficoltà che le operatrici hanno dovuto affrontare ma quasi sempre sono state anche trovate soluzioni per rendere queste fragilità organiche alla natura dell’opera, celandone l’origine.

Alcuni degli interpreti quindi sono matti, non dobbiamo tacerlo, sì perché – sono loro a dirlo – sono orgogliosi di essere matti. È evidente il loro impegno nel recitare e la completa adesione a quello che fanno mentre sono in scena, sono attori. Ecco.
A noi può rasserenare sapere che tutto ciò sia anche terapeutico per loro ma soprattutto ci interessa vedere uno spettacolo con una sua coerenza interna, con un’idea drammaturgica sensata, indipendentemente dallo stato di salute di chi lo mette in scena. E con D.IO è quello che succede.
I gironi di questo inferno d’architettura popolare sono anche cunicoli della mente, sono bracci in cui il tempo passa cercando di trascurarne lo squallore per far vincere la luce (non quella al neon) e il calore della vita che continua a pulsare anche tra pareti di calcestruzzo grigio, inesorabilmente grigio.
Buffo è leggere i tanti avvisi appesi ai muri: le scale interrotte per riparazioni, i controlli della polizia per chi getta i rifiuti dalle finestre e, a pochi centimetri “la fibra ottica sta arrivando anche a casa tua”! Oppure le frasi d’amore che si fanno strada tra il guano di piccione; tanti adolescenti vivono alla Cimabue e alcuni li incrociamo durante il nostro tour: qualcuno torna a casa con la spesa, qualcun altro esce per la sera, personaggi si sovrappongono a persone.


Il testo comprende riferimenti a Ibsen, Boris Vian, Nietzsche, Epicuro, frammenti tra i più intensamente poetici. Il finale, forse un po’ contratto, meriterebbe di essere più diluito perché le coup de théatre abbia il giusto respiro e possa essere meglio còlto nel suo senso tragico.
Si chiude con un’ultima cena condominiale, dove ogni commensale rappresenta un tema, un nodo da sciogliere. E sotto al palazzone si ascolta il canto delle cozze (di Angela Scalvini), intonato dagli angeli, che custodiscono sedici piani di umanità.

 

D.IO O DELL’INFERNO QUOTIDIANO

Compagnia Laboratorio Metamorfosi/Teatro19
con Valeria Battaini, Daniele Gatti, Giovanni Lunardini, Roberto Lunardini, Francesca Mainetti, Roberta Moneta, Nic, Nicola Stella, Isabella Zipponi
regia Francesca Mainetti
drammaturgia Francesca Mainetti, Giorgio Caldonazzo, Roberta Moneta
musica dal vivo Angela Scalvini
in collaborazione con UOP23 Spedali Civili Brescia e con Fondazione Brescia Solidale Onlus, Cooperativa La Rete, Cooperativa Elefanti Volanti

1 COMMENT

  1. Bell’articolo, ma è doverosa una piccola precisazione e cioè l’unico operatore della riabilitazione psichiatrica presente è Nicola STELLA, il Virgilio/portinaio/traghettatore di viaggiatori e visitatori che accoglie tutti in puro dialetto barese…

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